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A chi appartiene una tradizione?

Massimo Massaro è segretario generale dell’Istituto di Formazione politica “Petro Arrupe”, realtà -le cui origini risalgono al 1958- che si ispira all’impianto metodologico della “ratio studiorum”: analisi rigorosa della realtà, studio qualificato ed esigente, insegnamento efficace, accompagnamento personalizzato. L’Istituto si occupa della formazione “di uomini e donne che, avvertendo la vocazione a impegnarsi per il bene comune, desiderano coniugare rigore etico e seria preparazione professionale”.


Vorrei riflettere sul tema della memoria facendo leva su una storia recente, e ancora in corso. Si tratta di una vicenda, piuttosto spinosa, che riguarda un’importante realtà artistico-artigianale. Ovviamente non mi interessa qui la vicenda in sé, quanto i quesiti che essa pone.

Siamo negli anni ‘60, e il fondatore crea un’azienda che coniuga tradizione e ispirazione artistica moderna. Presto arriva il successo a livello internazionale, e non è solo un successo economico, visto che alcuni “pezzi” sono esposti in musei molto importanti.
Negli anni ‘90 muore il fondatore e allo staff rimane il compito di continuarne l’opera. Le cose però vanno male e l’azienda fallisce. Qui avviene la prima frattura: la discendenza decide di mantenere viva la memoria industriale con un nuovo brand. Il marchio originale viene invece venduto all’asta e acquistato da un gruppo di imprenditori di un’altra provincia. Il lavoro riparte ma, qualche anno dopo, l’azienda viene trasferita nella nuova provincia. Ed ecco un’altra frattura: alcuni lavoratori non accettano il trasferimento e fondano una nuova realtà analoga.

Si viene quindi a creare una situazione molto particolare, con tre aziende che nascono tutte dal medesimo “nucleo”, ma che sono separate e ognuno, a modo suo, rivendica la memoria di quel passato.

Ci sono state azioni giudiziarie quindi sospendiamo il giudizio, ma la questione è interessante e afferisce a tanti ambiti, ad esempio la questione del copyright. Ma chi ha più diritti? La discendenza? Chi ha acquisito il marchio? Chi ha continuato a fare lo stesso mestiere?
Forse tutti hanno diritto, o forse nessuno. Ognuno di loro ha la propria verità.

La vera domanda forse è: in quale modo si può tramandare una memoria, quando si incrocia con logiche aziendali?
Ma ci sono anche altri elementi di interesse, ad esempio quanto sia difficile -anche da parte di chi dimostra grandi intuizioni e spirito imprenditoriale- creare uno staff capace di tramandare memoria.

Dove sta dunque la memoria? Io credo ci siano due livelli: quello formale -la memoria in mano a chi la detiene legittimamente, secondo contratti- e quello informale, legato alla manualità, al saper fare, all’intelligenza delle mani, alla propria vita, memoria che non si può togliere a nessuno.
È una questione che spesso capita anche con gli oggetti di design “storici”.

Poi c’è il tema dell’innovazione. E questo è altrettanto interessante, perché in realtà fa sì che la memoria, la tradizione, non diventi una gabbia. Non basta chiedersi “a chi appartiene la memoria”? Serve anche interrogarsi sulla capacità di fare della memoria un volano di cambiamento. Uno spunto per percorrere sentieri meno ortodossi.
A quel punto val la pena di chiedersi: che cos’è originale? Che cos’è l’originalità? Specie in un prodotto seriale, dove sta il confine?

Nella storia che abbiamo raccontato sono tre le realtà che si sentono legittimate a rivendicarne la memoria di quell’azienda: una formalmente, una per “discendenza”, l’altra per “sapienza”. Una situazione poco armoniosa dove il dato formale non risolve la questione.





Photo by Furkanfdemir @Pexels

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