Quando ad aprile 2022 lo US Bureau of Labor Statistics, in uno dei suoi report mensili, ha mostrato che negli Stati Uniti i posti vacanti erano 11,5 milioni e 4,4 milioni di persone avevano lasciato il proprio posto di lavoro (3% della forza lavoro complessiva), sulle pagine di quotidiani nazionali e sui siti web di informazione italiani si è iniziato a parlare più frequentemente di come il fenomeno delle “grandi dimissioni” o “dimissioni volontarie” (in inglese “great resignation” o “big quit”) avesse raggiunto anche il nostro Paese.
Analizzando l’andamento delle dimissioni negli ultimi dieci anni nel contesto statunitense, alcuni studi dimostrano però che oltreoceano il fenomeno della “great resignation” sia cresciuto nel tempo a partire dalla crisi economica del 2008, seppure con tassi inferiori rispetto agli ultimi due anni.
In Italia il dibattito pubblico sulle dimissioni volontarie è stato invece alimentato, in particolare, dagli impatti che la pandemia Covid-19 ha avuto sul mondo del lavoro. Se letti con attenzione, i dati mostrano che nel nostro Paese non vi è stata una cosiddetta “fuga dal lavoro” ma una mobilità job to job, che caratterizza dalla fine degli anni Ottanta le traiettorie e le transizioni di carriera del terziario italiano, in particolare del Nord.
Paragonare quello che si è manifestato negli Stati Uniti a quanto sta avvenendo in Italia rischia di essere fuorviante poiché, più che di mercato del lavoro, è sempre preferibile parlare di mercati del lavoro (in questo caso nazionali) in riferimento ai diversi meccanismi di funzionamento che regolano i mercati stessi e quanto si può rilevare a livello territoriale. I contesti presi in esame sono però diversi, come abbiamo potuto vedere.
Andando oltre le macro-tendenze del fenomeno e l’analisi della sua complessità, se si pone l’attenzione sulla sua dimensione micro, è presumibile che nell’ultimo anno sarà successo a ciascuno di noi di ascoltare storie di parenti e amici, o semplicemente conoscenti, che hanno deciso di lasciare il proprio lavoro. Le motivazioni dietro questa scelta possono essere molteplici, tra cui la difficoltà di dover tornare in ufficio dopo aver sperimentato il lavoro da remoto o la flessibilità dello smartworking (che rimangono comunque due modalità di lavoro ben differenti). Oppure, la decisione di cambiare è nata per trovare un lavoro con una retribuzione migliore o per ricercare un “ambiente lavorativo” più vicino alle proprie aspettative.
Proprio su quest’ultimo tema, in rete, magari in qualche post su LinkedIn, ci sarà capitato di leggere il detto “Le persone non scappano dalle aziende ma dai capi incapaci”: questa frase, che a una prima lettura può far sorridere, nasconde forse un bisogno sempre più crescente – per non dire prioritario – che è quello di ripensare le relazioni sui luoghi di lavoro, non solo a livello verticale ma anche tra colleghi. Il problema non è il capo o il collega, ovvero il singolo – tema approfondito proprio nella scorsa newsletter – ma il gruppo, ovvero la squadra. È ormai noto che i successi sportivi di squadra dipendano anche dall’equilibrio dello spogliatoio e dal rapporto che si è instaurato tra i giocatori. Quest’ultimi vengono guidati non solo da allenatori ma anche da psicologi che aiutano il gruppo a superare gli ostacoli e le difficoltà.
A tale proposito, una crescente attenzione legata al tema della salute mentale nelle aziende non può rimanere solo uno slogan; sempre più lavoratori si aspettano che vi sia un accompagnamento psicologico anche da parte delle organizzazioni in cui si lavora, in particolare dopo una pandemia nel corso della quale si sono affrontati momenti che hanno stravolto le esperienze personali.
Dopo aver riflettuto su chi ha deciso di cambiare o mollare il proprio lavoro, per un momento tentiamo di ribaltare la prospettiva, lasciando da parte coloro che si sono dimessi dalle organizzazioni e concentriamoci sul punto di vista delle imprese che hanno visto i propri dipendenti licenziarsi. Proviamo a chiederci “Come reagiscono le organizzazioni quando vedono i propri collaboratori lasciare il posto di lavoro?” e anche “Cosa provano i lavoratori che restano?”.
Difficile trovare delle risposte immediate ma ciò si ricollega a due sfide che le organizzazioni si trovano ad affrontare: la prima riguarda la capacità di assumere i talenti (ovvero le cosiddette persone di qualità) mentre la seconda riguarda la possibilità di trattenere in azienda gli “alti potenziali”.
Il calo della centralità della funzione delle risorse umane e la minore possibilità di avere voce in capitolo degli uffici HR nelle decisioni aziendali incide anche nelle scelte individuali di carriera dei lavoratori. Se gli obiettivi di business evidenziano un disallineamento tra i bisogni e valori individuali dei dipendenti e quelli aziendali, i rischi sono principalmente due: le imprese faticheranno sempre di più a trattenere le proprie risorse e coloro che restano si sentiranno più soli e distaccati dalla quella cosiddetta “mission” che dovrebbe essere alla base di ogni strategia organizzativa.
Guarda il video Dimissioni per chi?
Cosa sono -se esistono in Italia- le “grandi dimissioni”.
Partendo dai dati, attraverso l’analisi del contesto, Giovanni Castiglioni dà il via a una serie di riflessioni su lavoro, carriera e stile di vita
Photo by Paula Schmidt @Pexels
2 commenti su “Dimissioni e dimissioni”