Il vuoto e l’arte della manutenzione della barca a vela

Dal momento che quel che leggerete in questa Newsletter dedicata al vuoto ha davvero poche pretese di esattezza – ancor meno del solito, intendiamo – e vi sorprenderà per il suo carattere eccentrico e astratto, iniziamo con un episodio concreto, per metterci comodi prima di affrontare il caldo delle salite.

La prima lezione di vela è un ottimo modo per fare amicizia con il vuoto, e con il paradosso. Se a 17 anni più o meno pensate che sia il vento a riempire la vela e spingere la barca, quello sarà il momento in cui scoprirete che è invece il vuoto che si crea dietro la vela che tira a sé la barca. La chiamano portanza. Ma insomma: a spingere è il vuoto. La barca ne è risucchiata.
Anche chi più che dalla poesia fosse attratto dalla dinamiche dei fluidi – non era il mio caso a 17 anni – troverà la cosa paradossale e perciò interessante, ne converrete.

Un passo avanti

Cosa ha da dirci questa “immagine guida” sull’oggi che osserviamo, da individui appassionati di organizzazioni?
Che siamo tutti figli dell’equivoco del vento. In quest’epoca di discontinuità – salti della storia, salti dell’economia, salti della natura – siamo impigliati in una lettura inerziale di ciò che ci accade. Guardiamo alla politica, all’economia, alla cultura, al nostro lavoro a partire da una isteresi elastica, direbbe ancora una volta un fisico. Ovvero, reagiamo agli urti con ritardo, ci ammacchiamo, comprimiamo le nostre certezze per poi ri-espanderci “come nulla fosse”, elastici al trauma, ostili al mutare forma, ostinati nel riprendere la vecchia.

Cosa c’entrano il vuoto e il pieno? C’entrano, perché questo nostro essere elastici al trauma e dunque ad esso indisponibili è anche alimentato, si direbbe insufflato, da un troppo pieno, da un “rumore bianco” fatto di dati e notizie senza palinsesto, cioè prive di profondità e contesto. L’infodemia che ci appanna la vista su guerre e pandemia trapassa poi nelle nostre agende, le inzuppa di call e e-mail, riempie ogni nostro spazio di incontri irrinunciabili, satura ogni angolo di tempo di telefonate necessarie. Il nostro è un tempo, individuale e organizzativo, di “cose da fare”.

Nulla di nuovo, direte. Se non che questo modo di “riempire il tempo” è diventato “Zetigeist”, spirito del Tempo. L’ottundimento ci porta collettivamente a una lettura appannata, perché affollata. Sentiamo socialmente, e più o meno inconsciamente, l’angoscia del presente, e la traduciamo in compulsione ad agire, spostandoci nel futuro. Riempiamo il vuoto con il troppo pieno. Siamo appunto vittime dell’equivoco del vento: se non le facciamo il vuoto davanti, la nostra barca – di individui, di organizzazioni – si ferma. Va in quel che si dice “angolo morto” (ancora lezione di vela numero 1).

Cosa c’è dietro la spinta al pieno

Avvertenza: qui iniziano le salite. Perché dietro il troppo pieno ci sono almeno due cose, un po’ astratte. Illusioni e pregiudizi.
L’illusione di un io bambino – individuale e collettivo – vittima di un pensiero magico, che è il seguente: il campo delle risorse è infinito e perennemente rinnovabile. Siamo invece alla fine prevista di un troppo pieno di tecnica, di fiducia illimitata e malriposta verso una crescita lineare ed estrattiva. Con il ghiacciaio della Marmolada smotta a valle l’era del tecnocapitalismo narcisistico, per dirla con Mauro Magatti. Non parliamo solo di ambiente ma di un modello sociale, economico, culturale. Ripetiamo: culturale, innanzitutto. Viene a nudo il troppo pieno di una libertà individuale che in questa zona di Occidente degli ultimi 70 anni si è concepita sovrana rispetto al piano della responsabilità, e ora in ogni ambito – anche quello della produzione e del lavoro – paga il suo prezzo scaricandolo sulle generazioni future. È il pieno di un pensiero magico, appunto, di cui è bene farsi vuoti. Velocemente, se possibile.

Poi c’è il pregiudizio. È quello di un io genitore – anch’esso individuale e collettivo – che pensa sia tutto ancora possibile “se solo ci si sforza”, anche a costo di uccidere il desiderio. È il pieno delle azioni e delle agende ripiene a parmigiana come antidoto al non sapere dove sta la vera spinta. È anche la falsa credenza – pre-giudizio appunto – che esista una only best way, una sola via esatta, proprio e solo quella, per trovare il bandolo perduto. Basta cercarla, deve essere lì da qualche parte, basta fare di più, aumentare i giri. Come un frigo da stipare a oltranza anche quando non si chiude. Così, ci si riempie ancor più la vita di rumore bianco, si elimina lo spazio dell’inatteso, ci si rende indisponibili all’imprevisto, incapaci di risposta rispetto ai salti di vento. Intanto indossiamo vestiti che ci cascano addosso larghi, ma non ne troviamo altri nel nostro guardaroba e di diversi non ne sappiamo procurare.

Forse c’è anche questo dietro la Great Resignation, c’è un troppo pieno organizzativo (aziendale) che non incontra più né domande di senso né desideri, perché è confezionato in modo standard, in formato maxi-offerta con bollino sconto, e non tiene conto dei vuoti che ciascuno vuole o deve riempire anche da sé. Vuoti di significato oltre che di reddito, che sono quelli che alle aziende chiedono tempo e spazio, e cura e ascolto se non si vuole che le persone siano solo “fattore lavoro”, rotelle di meccano, merce umana.

A che serve fare vuoto oggi

Adesso sembra discesa, ma non abbiate fretta: fare a meno di pregiudizi e illusioni non sono la risposta, ma soltanto la condizione per trovarne. Con cautela, circospezione. Fare vuoto significa mettersi nella postura scomoda dell’attore, mai troppo sicuro sul palco se vuole essere pronto a improvvisare. Mai troppo a suo agio per poter sentire il disagio, l’imbarazzo proprio e altrui e darvi forma e parola, e “interpretare” il momento. Bisogna so-stare nel vuoto prima di farsene portare, o se preferite, darvi forma.

Consapevolezza delle cornici

Quale può essere oggi una forma? A me viene da dirla così, con approssimazione: uscire dalle nostre cornici – di cultura, di educazione ricevuta, di tempo vissuto e storie personali – e farsene consapevoli. Come insegna Marianella Sclavi, questo è il primo passo: guardarle queste cornici – soprattutto quelle organizzative – essere consapevoli del proprio punto di vista e di quello dei nostri luoghi di lavoro, per guardare quelle altrui ed esplorare mondi possibili.

In ascolto (con umorismo)

Significa anche imparare l’arte dell’ascolto, che è la capacità di so-stare fuori dalle proprie gerarchie percettive e a valoriali. Il benefico individuale, collettivo e organizzativo, sarebbe la perdita degli assoluti (traduco: la mia cornice è l’unica che vale) e come direbbe Gregory Bateson il beneficio dell’umorismo (traduco: nulla è davvero vero, siamo noi che costruiamo socialmente e intersoggettivamente quel che chiamiamo vero), che è poi l’unico modo per gestire il conflitto nell’era della complessità. Dunque vuoto uguale consapevolezza e umorismo.

Stare nel qui e ora

C’è anche altro. Una diversa percezione del tempo. Ha a che fare con la barca da cui siamo partiti.
Chi ama la vela come esercizio spirituale sa che il vero piacere sta nell’andare (senza rumore se non quello di vela e scafo) non nell’arrivare. Questo piacere del viaggio che il vuoto ci regala – la contemplazione di ciò che ci circonda, in qualunque forma ciascuno sia capace di realizzarla – recupera spazio al presente, al qui e ora, che è l’antidoto principale al rumore bianco. Dunque vuoto uguale presenza nel qui e ora.

Si è fatto giorno, direbbe un poeta, e questa newsletter è fin troppo piena.
Dunque sbarazzatevene, per stare nel paradosso.
Magari prima date un occhio, se potete.
Ciao, buona estate.


Photo by Daria Shevtsova @Pexels

3 commenti su “Il vuoto e l’arte della manutenzione della barca a vela”

  1. Bellissima.
    Credo sia fondamentale ,spostarsi con il corpo da dove siamo,perché nel corpo C e il tutto,nella mente e nel cervello C è un pezzettino.

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  2. Non vi ho solo dato un’occhiata, l’ho letta e mi ha rinfrancato, mi ha restituito consapevolezza di questo mio insano (credevo) desiderio di chiudere gli occhi e lasciar passare, che mi frulla in testa da qualche mese, fermarmi e girare dall’altra parte, in senso contrario rispetto a quello che dovrei fare, rovesciare le carte. Perché di tutta questa frenesia di vita, quest urlare sempre all’emergenza, sentivo l’inganno già da molto, professando lentezza, riflessioni e sguardi sempre oltre, io, iperattiva conclamata! Ma mai avrei pensato al vuoto come stato per ascoltare e ripartire. Il vuoto che li per li spaventa, nel vuoto non c’è nulla cui aggrapparsi. E invece, guardarlo da questo lato, una vera illuminazione! Ti ringrazio davvero per questo nuovo spunto di riflessione.

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