La gentilezza si manifesta attraverso azioni altruistiche. è molto diversa dalla cortesia, che deriva dalla mente e dal desiderio di aderire a un codice di comportamento sociale accettato. A volte le due si sovrappongono, ma è anche possibile essere cortesi senza essere gentili; così come è possibile essere genuinamente gentili in modi che vanno oltre la mera aderenza alle norme di cortesia. Ancora diversa è la compassione, lo stato emotivo che nasce di fronte alla sofferenza altrui e che motiva un desiderio profondo di aiutare e di alleviare tale sofferenza; è una forma di empatia che non solo comprende la situazione altrui, ma è accompagnata dall’urgenza di agire per migliorarla; la compassione ispira spesso atti di gentilezza.
La gentilezza è la delizia più grande dell’umanità, diceva Marco Aurelio. Ma siamo davvero sicure e sicuri che sia così? Se condividiamo l’idea che la gentilezza sia una virtù, possiamo comunque ritenere che sia esagerato considerarla una soluzione universale per le relazioni interpersonali.
Perché la gentilezza può essere forma pura di narcisismo, strada breve per autocompiacersi e trovare affermazione sociale. Non a caso le pubblicità usano spesso la gentilezza per guadagnare consenso: sarò gentile con te per avere in cambio qualcosa – tipicamente l’acquisto di un prodotto/servizio, di un voto, di un Si.
Allo stesso modo ritroviamo (fin troppa) gentilezza in quelle dinamiche di gruppo in cui vi è una finalità non dichiarata. Laddove le relazioni non sono chiare è facile ritrovare una certa untuosità che permette di rendere più scorrevoli le relazioni, al fine di arrivare a un risultato. La gentilezza allora diventa strumento di persuasione, forza manipolatoria da contenere.
Poi c’è il tono di voce, che aiuta e rafforza, che permette di lisciare, avvicinare; che si alterna a quel ‘gridato’ continuo di notizie e fatti (come ci raccontava qui Francesco Gaeta) per farci arrivare a un appiattimento generale.
Non di meno sarà capitato a tutte e tutti di aver ricevuto osservazioni di grande brutalità ma con toni assai gentili.
Perché la gentilezza permette anche di camuffare e consente di superare più facilmente alcuni limiti, lasciandoci a volte attoniti, sporcando il messaggio e mettendoci in una condizione in cui reagire è complicato. Se usata impropriamente sbilancia alcune dinamiche, regalando potere a chi la sa ben utilizzare e diventando veicolo per evitare conflitti che sarebbero invece necessari per affrontare situazioni e persone, per permettere di passare oltre e di andare in profondità, di dirimere questioni.
Poi però mi tocca riconoscere che la vita stessa, spesso, è gentile: siamo in una parte del mondo che definirei quantomeno fortunata, mangiamo tre volte al giorno, viviamo in un tessuto sociale che ci riconosce come individui. Personalmente ritrovo la gentilezza in molti aspetti della mia vita, personale e professionale. Allo stesso modo apprezzo la gentilezza quando la ritrovo nelle piccole cose, quando arriva gratuitamente negli scambi con le persone. E se anche Schopenauer, il più pessimista tra i pessimisti, definiva la gentilezza una preoccupazione genuina e profonda per gli altri, non posso che ammettere che non può essere poi così male.
Allora preferisco immaginare la gentilezza come uno spazio di accettazione, in cui ciascuna e ciascuno di noi possa accogliere ed essere accolto/accolta, in cui affermare la propria identità e coltivare il rispetto reciproco.
La gentilezza, se diventa relazione autentica e quando riesce a restituire chiarezza, resta ancora uno strumento di valore e di aiuto, anche e soprattutto nelle organizzazioni. Può intervenire per risolvere i conflitti piuttosto che per evitarli, può fare da traino per accogliere le diversità. Per questo – senza esagerare – potrebbe ancora valere la pena praticarla.
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Foto Mona Eendra @Unsplash