Matteo Matteini è fondatore di Vitality, realtà nata nel 2012 per generare opportunità di sviluppo a partire dall’incontro con persone di culture diverse. Vitality svolge attività di ricerca, progettazione, formazione, accompagnamento e comunicazione, contribuendo alla ri-generazione di comunità aperte, inclusive ed integrate in cui le differenze siano considerate risorse per il bene comune.
In passato c’era una distinzione significativa nell’utilizzo dei dati quantitativi fra le metriche aziandali/profit e le metriche volontaristiche/non-profit.
Da un lato il profit/estrattivo, obbligato ad una crescita continua, utilizzava dati per aumentare l’efficienza della produzione e della vendita, concentrando il perimetro dell’analisi sulla propria filiera.
Dall’altro lato il non-profit/volontaristico, meno incline a valutare la propria efficienza interna, era più concentrato a rilevare il beneficio apportato a individui e comunità ponendo l’accento sull’esterno.
Nei primi anni duemila, su richiesta di consumatori sempre più consapevoli, le aziende hanno dovuto esplicitare sempre più gli impatti economici, sociali e ambientali del loro operato.
Nello stesso periodo il non profit, a partire dal quello globalizzato delle ONG, è stato chiamato a una maggiore trasparenza nella raccolta e utilizzo dei fondi attraverso la sistematizzazione dei sistemi contabili e del fundraising.
Sia l’azione regolatoria governativa (top-down) sia la pressione di consumatori e donatori (bottom-up), hanno portato allo sviluppo di sistemi di valutazione più attenti, spingendo le aziende profit a essere più consapevoli e le organizzazioni non-profit più trasparenti. Da allora moltissimo è cambiato, ma molte aziende e organizzazioni tradizionali appaiono restie a far evolvere i propri sistemi di valutazione elevandoli a leva strategica per lo sviluppo e la sostenibilità.
La digital economy ha rotto gli schemi sia interni sia esterni alle organizzazioni. Ora siamo tutti prosumer, più o meno inconsapevoli di ciò che stiamo producendo e/o consumando, generiamo dati istantanei e forniamo metadati, informazioni complesse, aggregate ed elaborate in base alle nostre abitudini.
Rispetto alla potenza, alla velocità, alla precisione del monitoraggio e della valutazione delle tech company i sistemi tradizionali impallidiscono. Per non parlare della loro capacità predittiva.
Knowledge is power e il potere delle tech companies crescono di pari passo alla nostra ingenuità nel cedergli dati. Non c’è molto fair play, va detto, Amazon, Facebook o Google sanno su di noi molto più di quello che noi sappiamo su noi stessi.
Possiamo scegliere di difenderci dall’invadenza delle Tech companies, oppure di imparare da loro, allearci con loro o creare alternative. Il digitale fornisce strumenti potentissimi per raccogliere, analizzare, visualizzare e condividere i dati gratis o a basso costo.
Ad esempio, le piattaforme open data, gli aggregatori di dati pubblici.
Oggi forse sono ancora sottoutilizzate nel non profit, ma potrebbero essere alleati strategici per ridurre il gap di conoscenza fra tech companies e consumatori, società civile, organizzazioni e amministrazioni.
Gli strumenti ci sono, vanno coniugati con la consapevolezza, l’intenzione, il metodo la cultura organizzativa.
Tuttavia, nell’indagare come e che cosa misurare, vanno fatti dei distinguo. Misurare, monitorare e valutare dati quantitativi e di risultato per un Ente del terzo Settore è un requisito imposto dai finanziatori che impongono talvolta anche la metodologia.
Questo potrebbe risultare inefficace ai fini del processo produttivo e organizzativo e talvolta causare distorsioni.
Ci sono bandi pubblici per il finanziamento di imprese sociali in cui la premialità in denaro è legata al raggiungimento di obiettivi di fatturato. Oppure progetti europei pluriennali nei quali a causa della crisi attuale sono cambiati i bisogni dei destinatari. Servirebbe ri-programmare, investire e valutare in modo diverso.
Eppure, è impossibile cambiare le regole in corsa. La valutazione è l’ultimo anello di una rigidità e uno schematismo burocratico che possono far deragliare lo spirito dei programmi.
Sappiamo che la raccolta dei dati può essere vista come parte del processo produttivo e organizzativo.
A mio avviso le organizzazioni dovrebbero innanzitutto riferirsi alla propria vision e stabilire con certezza come e con quali metodi rilevare il cambiamento che desiderano ottenere. Questi elementi fungono da bussola e possono invogliare gli enti erogatori a co-progettare anziché ricorrere alla porta stretta dei bandi.
Poi ci sono le relazioni.
Facilitare, gestire e misurare la qualità e la quantità delle relazioni con gli stakeholder è più immediato e palese oggi attraverso l’uso delle piattaforme digitali. Le communities, se coltivate con competenza, possono operare processi partecipativi in cui la valutazione diventa responsabilità di tutti.
Infine, la struttura organizzativa e gli altri fattori della produzione. Gli strumenti cloud computing, ad esempio gestionali, project manager e customer related marketing, forniscono anche più dati di quelli che si riesca a utilizzare. Questi strumenti consentono di creare con flessibilità cruscotti funzionali ai propri obiettivi.
Questa è l’impostazione che stiamo sperimentando in Vitality Onlus proprio in risposta alla crisi in corso. Ovviamente, come micro-organizzazione, abbiamo il privilegio di poter sbagliare strada tante volte prima di avere successo. La valutazione come processo allargato e partecipativo per noi ha anche un risvolto di sistema, specialmente nella situazione attuale. Ovvero rappresenta un antidoto al più grande limite autoimposto, cioè l’idea che la realtà non si possa veramente cambiare.
Un’ultima riflessione. Un processo di valutazione onesto, corretto e imparziale può essere alla base di meccanismi di innovazione sociale. Si pensi alle iniziative pay for success in cui la misurazione dell’efficienza certifica il patto tra policy maker, erogatore del servizio, contribuente e destinatario. Ancora più avanzati mi sembrano i processi partecipativi del crowdfunding, sia rewarding sia, a maggior ragione, equity.
La valutazione della sostenibilità e dell’impatto sociale è intrinseca all’azione di promotori, piattaforme, intermediari, consumatori, investitori e donatori.
Si dice che “If you torture the data long enough, it will confess” (se torturi i dati a sufficienza, essi confesseranno). I numeri sono l’ideale per rassicurare la mente, per dare una veste comprensibile a fenomeni sfumati. Trasformare i dati numerici in informazioni e le informazioni in conoscenza ha bisogno però di competenza e onestà intellettuale.
Numeri, dati, statistiche propugnati con autorevolezza tendono a essere credibili, ma la poca credibilità di chi li maneggia riesce a svilirli.
Covid-19 docet.
Negli ultimi mesi l’infodemia è diventata nociva, siamo stati subissati di numeri, dati, indici, formule e statistiche contraddittori fra loro, parziali, interpretati in maniera errata, intenzionalmente celati o distorti. I sistemi di valutazione delle organizzazioni devono potersi collegare a sistemi di valutazione dell’impatto più generali per funzionare. Se anche la comunità scientifica vacilla, per non parlare della pubblica amministrazione e dei media, è ovvio che il problema non sono i numeri.