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Leggere il presente per Desiderare il futuro

Da un dialogo con
Francesco Gaeta, membro dell’équipe di Excursus+, giornalista e Brand Manager dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia. Da anni si occupa di comunicazione strategica, social business, innovazione organizzativa, coaching e counseling.

Il giornalismo è intelligenza del presente, capacità di legare punti apparentemente dispersi tra loro. Il buon giornalista è fedele ai dati e ai fatti che mette in connessione nell’atto di contestualizzarli. è prioritario per il giornalista comprendere, inquadrare, connettere i punti del suo presente senza alcuna pretesa di comprendere la realtà, che per sua natura resta sempre incomprensibile.

Ma osservare i dati e connetterli tra loro è un’operazione preziosa, che consente a chi legge di conoscere parte del presente, tracciando traiettorie di futuro. Soprattutto nell’oggi, dentro a un presente che è frammentato, contraddittorio e ansiogeno, la realtà si è fatta sempre più complessa. Gli input che riceviamo sono molteplici e le persone hanno una sensazione di presente che è difficile da decifrare.

Trovare spunti dal presente che siano di fiducia verso il futuro non significa essere buonisti; non esistono buone notizie, ma esiste una lettura della realtà che non necessariamente si traduce in una critica depressiva. Tuttavia, è molto più facile accomodarsi su una formula di denuncia, che utilizzi l’ansia e la paura come elementi di traino per il lettore.

Ultimamente l’informazione si è spesso modellata sulla pancia dei lettori, influenzando meccanismi di polarizzazione, creando delle bolle isolate tra loro. E così l’ansia, la paura e l’incertezza sono diventate una merce preziosa per chi si occupa di informazione, la leva da sfruttare per generare più audience. È una tendenza dannosa anche per la categoria dei giornalisti, perché genera di un meccanismo che a lungo andare causa un deterioramento del clima complessivo dell’ecosistema dell’informazione, allontanando le persone dall’informazione stessa. Il fenomeno dei News avoiders viene ormai segnalato in tutti i report internazionali di giornalismo online: circa 1/3 della popolazione mondiale scrolla i propri social quando incontra contenuti di notizie, evitandole. In Italia abbiamo una percentuale addirittura superiore, che si aggira intorno al 36% (secondo l’ultimo rapporto Thomson Reuters del 2023).

Le persone sono sature delle notizie ansiogene e certamente viene fatto loro un cattivo servizio: fermarsi all’analisi critica -nel senso deteriore del termine- è una scorciatoia. A tutto ciò si somma un tono di voce stressato verso l’alto, sopracuto. È come se in una pietanza si mettesse troppo sale per coprire l’assenza di sapore: i giornali non riescono ad accettare il fatto che la realtà non sia sempre un piatto sapido. Condirlo a tutti i costi per renderlo saporito non è necessario. Non c’è bisogno di strillare per farsi sentire, per dare alle persone un futuro da desiderare. 

Il giornalismo del futuro avrà toni pacati se sarà in grado di creare legami di comunità e di collettività: un giornalismo locale, o iperlocale, in cui l’interazione con la collettività a cui ci si rivolge è parte essenziale del processo di produzione delle notizie, mirando a costruire significati collettivi. Perché i significati collettivi sono proprio ciò che chiamiamo futuro per una comunità che si informa e condivide alcuni assi valoriali, alcuni significati rispetto alla realità in cui vive. Riuscire a ingaggiare un flusso di feedback costante e continuo è uno dei compiti del giornalismo che riesca a soddisfare questa attesa, che è essa stessa necessità di futuro. 

Questi processi di condivisione sono anche applicabili su più livelli: riuscire a un condividere degli assi valoriali coinvolgendo la propria community, cioè le persone che vivono un’organizzazione (sia essa famiglia, impresa, territorio, comunità) permettono di definire i punti fermi da cui partire per immaginare un futuro possibile e poi costruirlo insieme.

Ma ci serve uno spazio vuoto, perché il desiderio è fondato sull’assenza.

Siamo in grado di desiderare -e anche di desiderare il futuro- se non siamo ingombri di oggetti e di cose. Facendo un parallelo un po’ azzardato: i film porno uccidono il desiderio perché sono pieni di cose e di corpi, non lasciano nessuno spazio al vuoto che è imprescindibile per qualunque desiderio, anche quello erotico. Se si parla alla pancia delle persone si riempie ogni spazio, le si ingombra, togliendole dalla condizione di poter desiderare.

Desiderare invece è possibile proprio all’interno di quella intercapedine che si crea in ogni conversazione, nel momento in cui aspettiamo che il nostro interlocutore concluda la propria frase prima di riprendere la parola. Se non vi è sufficiente spazio affinché una collettività possa dibattere rispetto a dove vuole andare e alle prospettive con cui affrontare i propri problemi, difficilmente si troveranno risposte e desideri adeguati.

Nel suo libro La fine del dibattito pubblico il giornalista Mark Thompson -ex dirigente della BBC e attuale capo della CNN- sostiene che quando il discorso pubblico è deviato, sia nel tono che nel contenuto, verso una strumentalizzazione da parte dei suoi gestori (principalmente il personale politico) viene a mancare la sospensione sulle tesi che è necessaria per ipotizzare traiettorie di futuro. Se siamo sempre certi di tutto e percepiamo la realtà come un’immagine bidimensionale, rischiamo di ignorare la sua intrinseca complessità.  Dovremmo invece preservare uno spazio vuoto, necessario per concepire traiettorie di pensiero più autentiche e per navigare la complessità del mondo. Altrimenti, rischiamo di appiattire ogni discorso in un amalgama che annienta la voglia di desiderare un futuro che, in realtà, possiamo ancora costruire insieme.

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Foto Tim Mossholder @Unsplash

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