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Uno spazio tra le Domande e le Risposte

Matteo D’Alessandro, dopo una laurea e un dottorato di ricerca in fisica, sceglie di diventare educatore. Attualmente è vicepresidente e educatore professionale presso la Società Cooperativa Il Villaggio in città.

Qual è il valore delle domande in ambito educativo?

La domanda è uno strumento sottoutilizzato che soffre di qualche bias di controllo. Spesso ci troviamo a chiedere: “Dove sei stato o stata?” e “Cosa hai fatto?” con la funzione di controllare piuttosto che di ascoltare. Allo stesso modo, le classiche domande poste nelle scuole sono quelle che il fisico e filosofo austriaco Heinz Von Foerster definisce “illegittime”: chi le pone conosce già la risposta. A me invece piacciono le domande che stimolano la ricerca, che aprono un campo in cui si impara qualcosa, indipendentemente dalla risposta che si ottiene – e ciò vale sia per gli adulti che per i giovani e le giovani, i bambini e le bambine.

Le domande buone sono quelle che suscitano ulteriori domande, laddove le risposte diventano necessarie, ma non definitive. A volte basta una risposta da tenere lì a maturare per proseguire e andare oltre. Perché l’alter ego della domanda è la risposta, il suo riflesso che invita a ulteriori considerazioni. Siamo invece intrappolati in un meccanismo in cui spesso l’unica cosa che conta nelle risposte è che siano quelle giuste, attribuendo valore alla performance, piuttosto che alla sostanza. La scuola ci ha un po’ contaminati con questo approccio, offrendoci il mito della risposta esatta: se ti faccio una domanda sapendo che c’è un solo modo per rispondere correttamente, ti chiedo solo di performare, non di conoscere e riflettere. E questo vale certamente anche nella politica.

È altrettanto vero che le risposte non sono mai definitive (tanto che qualcuno ha scherzosamente detto che due più due fa cinque, per grandi valori di due), ma necessarie nella quotidianità tanto da diventare risposte agite attraverso le scelte che facciamo: prendere decisioni e svolgere azioni è rispondere alle domande. Parafrasando un motto della sociocrazia potremmo dire che le risposte alle domande dovrebbero essere sufficientemente sicure da provare a metterle in pratica, e sufficientemente buone per ora. Non esistono domande/risposte giuste o sbagliate, ma esistono domande/risposte giuste o sbagliate, per me e per questo momento. Le domande possono essere fatte uguali a sé stesse molte volte e avranno sempre un contenuto, un contesto, delle sfumature diverse perché chi se le fa non è mai la stessa identica persona.

Quando lavoravo al centro diurno Il Canestro con i ragazzini tutelati dai servizi sociali mi è capitato di affiancare un bambino di 9 anni in un compito che chiedeva di completare delle frasi con gli aggettivi adatti. C’era una frase che diceva “Oggi ho lavorato tanto, quindi sono…”: vi si doveva aggiungere una parola conclusiva. Lui aveva scritto “soddisfatto” ma l’insegnante lo aveva corretto con “stanco”. La divergenza nelle risposte è proprio quella che porta a scoprire strade nuove, a mettere in crisi idee troppo rigide, stereotipate; l’insegnante avrebbe dovuto imparare qualcosa da quella risposta inattesa. Invece ha deciso di correggere un errore.

Come si impara a interrogare e a interrogarsi all’interno di un percorso di crescita?

È molto più facile che le domande che ciascuno fa a sé stesso siano quelle da esportare all’esterno, perché vere e autentiche, di esplorazione e di attesa. Invece, all’esterno si interroga per avere il controllo, per sapere, per avere informazioni. Non ci si concede il lusso di fare domande per cui la risposta non sia immediata.

Sarebbe anche molto utile avere consapevolezza dei diversi tipi di domande che esistono per praticarle attraverso le risposte, prendendosi del tempo e riuscendo ad ammettere, alle volte, di non avere risposta. Stare nell’incertezza è molto salutare, permette di sperimentare domande che non siano previste e di trovare nuovi percorsi. È una pratica che può essere fatta anche a casa, in famiglia o attraverso giochi di ruolo. Io cerco di farlo quando lavoro a scuola, quando faccio lezione o quando modero gruppi di adulti.

La domanda senza risposta costruisce dei silenzi, vuoti, spazi liberi in cui si può cercare altro e in cui si è liberati dalla pretesa di dover trovare le risposte giuste o sbagliate, belle o brutte. L’attesa, il silenzio, sono parte integrante del processo di domanda e risposta.

Come possono intervenire le istituzioni in questo processo?

Le istituzioni devono darsi degli obiettivi, ma hanno anche bisogno di farsi domande che siano un po’ fuori da questi obiettivi, moniti, avvisaglie, che aiutino a dire: “Attenzione, c’è qualcosa che non va bene – o che va troppo bene. C’è una domanda che non è stata fatta”. Le domande da fare sono quelle che mettono in crisi la normalità di una situazione. Le istituzioni dovrebbero anche avere il coraggio di farsele per disturbare il loro ordine, i loro processi e gli obiettivi consolidati, contribuendo a creare un ambiente più aperto. Potrebbe essere anche una questione di cultura organizzativa, di come le istituzioni affrontano la complessità e la sfida di stare nella domanda, anziché nel cercare solo risposte immediate.

Quali sfide leggi nell’utilizzo delle Intelligenze artificiali e nel loro modo di fornire risposte immediate?

Le risposte che ti può dare un’intelligenza artificiale corrispondono, semplificando, a una somma di conoscenze messe in collegamento fra di loro. Mi chiedo se però possano avere quella eccedenza sistemica in cui il tutto è più della somma delle parti. Per esempio, come fa l’intelligenza artificiale a tenere conto di chi è l’individuo che pone la domanda? Se io ricevo una domanda sulla guerra da un adolescente, da un bambino o da un adulto, la mia risposta sarà sempre diversa. Saranno risposte che terranno conto delle parole, dei modi, dell’uso del corpo, delle pause e che rientrano nel buon utilizzo della domanda posta. Anche se addestrata, l’intelligenza artificiale starà nella superficialità o profondità dell’indicazione che le verrà fornita, ma è dove arriva l’empatia della persona che tutto cambia. Se sono io ad addestrare e a formare l’IA, sarà sempre la mia visione personale a influenzarla e mancherà la relazione estemporanea che si crea nell’atto del domandare e rispondere tra le persone. Più la mia sensibilità sarà raffinata, più la risposta sarà adeguata. Quindi davvero si torna alla capacità di ciascuno di noi di allenarsi a guardare il mondo in un certo modo proprio, e nel cercare di capirlo.

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Foto Christian Lue @Unsplash