Prima della pandemia, circa mezzo milione di persone popolava la City di Londra, il centro economico finanziario del Regno Unito.
A settembre la situazione era ben diversa, con non più del 20% delle persone tornate al proprio posto di lavoro, con conseguente crisi dell’indotto legato agli uffici: bar, ristoranti, lavanderie etc.
Non è stata solo paura del contagio: semmai anche la possibilità di poter lavorare senza dover affrontare la quotidiana fatica di spostarsi su mezzi
pubblici affollati, di mangiare male, di avere a che fare con capi e colleghi riottosi.
Sui giornali ci si è chiesto se – come per le miniere degli anni 80 – anche per gli uffici della City non sia venuto il momento di ammettere che il modello si è fatto obsoleto (per non dire del valore immobiliare del settore degli uffici che nel mondo vale 30mila miliardi di dollari e che oggi vacilla nell’incognita del futuro).
L’Economist ha dedicato una copertina al tema a metà settembre, centrando il vero tema: non solo (o semplicemente) lavoro da casa, ma “Office politcs”, ovvero la “battaglia sul futuro del lavoro”.
A cominciare dai dati: se l’84% dei francesi è tornata in ufficio, questo vale per meno del 40% degli inglesi, riporta il settimanale.
E se in Germania il 74% degli impiegati ha ripreso possesso della
propria scrivania, solo la metà di questi va in ufficio per cinque giorni a settimana.
A livello europeo, solo metà dei lavoratori dei cinque maggiori Paesi (Italia, Germania, Regno Unito, Spagna, Francia) va tutti i giorni in ufficio.
Sullo sfondo, la domanda cui ancora nessuno sa dare una risposta chiara: si è più produttivi a casa o in ufficio?
E noi aggiungiamo: come si lavora meglio?
La pandemia ci ha costretto ad allargare in orizzontale le maglie dei nostri spazi, dato l’inedito ingombro del “vuoto” che deve separarci gli uni dagli altri.
Col risultato per certi versi paradossale di restringerli, spingendoci ad occupare spazi che sinora avevano altre destinazioni, altre modalità
e tempi d’uso e di usura.
Le organizzazioni sono entrate nelle nostre case e i tempi del lavoro e
quelli della vita-fuori-dal-lavoro si sono ancor più intrecciati.
È un fenomeno transiente o è la nuova normalità?
Di certo non si tratta (solo) di logistica.
Gli spazi vengono abitati, e conta soprattutto quel che ci accade dentro.
Le relazioni esistono – modificate certo – se esistono gli spazi dove agirle, reali o virtuali che siano.
Quindi quel che sta accadendo, incidendo sulle relazioni tra persone/colleghi, riguarda anche molto la filiera del lavoro, l’efficienza, la governance.
E i rapporti di potere, come anni di letteratura scientifica hanno dimostrato.
Non ci sono solo le prassi: le riunioni, gli incontri davanti alla macchinetta del caffè, le convocazioni nell’ufficio del capo.
Ci sono le gerarchie, le paure, le aspirazioni. C’è invadenza e discrezione,
smarrimento e nuovi punti di riferimento, disaffezione e nuovi ingaggi.
E poi c’è il tempo, che come la fisica del ‘900 ci ha insegnato è tutt’uno con lo spazio.
La nuova condizione “spaziotemporale” che denota la ripartenza è inedita, perché non è il lockdown che abbiamo vissuto, ma non è neanche un ritorno alla “normalità” che abbiamo perso a marzo.
È una condizione indefinita, nella quale è difficile fare previsioni, dare vita a progettualità, confermare investimenti quando non sono chiari gli spazi e i tempi.
Quanto riesce a guardare lontano un’organizzazione (nello spazio, e nel tempo), come fronteggia questo adattamento quasi quotidiano, questo tatticismo a tratti snervante.
Chi, e come, ha fatto scelte di lunga gittata?
Chi è capace oggi di speculare sul futuro? I confini fra spazio/tempo del
lavoro e spazio/tempo di tutto ciò che lavoro non è sono diventati più labili, ma forse questi confini labili -se non crollati- hanno mostrato un’umanità diversa, hanno svelato un volto differente dei colleghi, del capo, del dipendente.
Anche il poco affrontato tema del controllo nello e dello spazio apre a una dialettica differente su progettualità che possono essere sviluppate altrove, al di fuori dei più tradizionali ambienti di lavoro.
È forse questo il momento per esperire relazioni di fiducia; è della fiducia, infatti, e non del controllo, che la creatività si alimenta, generando opportunità nuove e piste alternative e risolutive ai problemi che la quotidianità organizzativa ha finora posto.
In definitiva ci chiediamo come spazi e tempi di lavoro nuovi ridefiniscano le relazioni all’interno delle organizzazioni, tra le organizzazioni, e all’interno della società in cui queste operano.
E nel domandarcelo ci mettiamo in ascolto delle storie raccolte in questa newsletter.