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La parola donata

Paola Piras è docente di inglese in un liceo, dopo aver insegnato anche alle scuole medie nel quartiere Quarto Oggiaro di Milano. È anche coordinatrice presso il Centro interculturale Come della cooperativa Farsi prossimo di Milano.

Paola, hai fatto molti lavori nel campo dell’insegnamento, dell’integrazione, dell’intercultura. Ma hai anche lavorato nel mondo profit. Che cos’è il “dono”?

Riflettendo sulla parola “dono” mi vengono in mente per prime le mie esperienze nella scuola e nell’ambito cooperativo. Ci sono molti punti in comune tra i due contesti, una contaminazione che li arricchisce a vicenda.

In cooperativa ho soprattutto a che fare con adulti, mi occupo di formazione sui temi dell’intercultura, dell’insegnamento linguistico e della didattica digitale e coordino l’equipe degli insegnanti di italiano L2.
La “Lingua seconda” è la lingua appresa nel Paese in cui viene parlata abitualmente e si differenzia dalla lingua madre o straniera (appresa a scuola, ad esempio). L’insegnamento dell’italiano a persone non italofone è una grande esperienza di dono, dal punto di vista professionale e umano. La parola è il vero dono: ho incontrato persone che mi chiedevano le parole per capire e interrogare la realtà dove si trovavano, per comunicare, insomma, parole per vivere.

Le parole possono essere un dono reciproco, infatti, ho ricevuto e custodito tante storie di migrazioni, fatiche e conquiste. E insieme alle storie la meraviglia di vedere negli occhi di questi giovani – tra loro anche minori stranieri non accompagnati – una luce che brilla vivida, un desiderio profondo di conoscere, di sapere, di sperimentare.

A volte vorrei mettere in comunicazione questa luce che trovo nei loro sguardi con la stanchezza che a volte vedo negli occhi degli studenti a scuola…

Inoltre, con l’insegnamento dell’italiano L2 si costruiscono ponti con culture e mondi diversi: e anche questi sono regali meravigliosi. Ovviamente, non sempre è facile. Il caso vuole che l’anagramma di “dono” sia “nodo”: un legame, certo, tra storie e persone, ma anche un vincolo, una restrizione, non sempre accettata. Un dono non sempre viene accettato da entrambi i lati. Bisogna essere disponibili ad accettarlo. Ricordo, ad esempio, una signora peruviana, per la quale imparare l’italiano era un po’ come tradire la sua lingua e cultura d’origine.

Anche per me ci sono nodi culturali da sciogliere, cose che non capisco, e faccio fatica ad accettare.

Anche al liceo?

A scuola insegno inglese: è un modo per affacciarsi su altri mondi. Al liceo, infatti, abbiamo studenti che vengono da molti paesi diversi e l’inglese ci dà l’opportunità di aprire finestre su altre culture. In aula i “doni” sono molteplici: può sembrare un’immagine banale, ma per me funziona: è quella del seme che viene gettato nella terra senza sapere bene cosa ne verrà fuori.

Mi è capitato di recente di andare in un centro commerciale e lì di incontrare una mia ex alunna di Quarto Oggiaro. Era una ragazza con tanti problemi: però ha terminato il suo ciclo di studi, ha trovato lavoro, e oggi è una commessa in un bel negozio. È un gran bel dono quando intravedi -soprattutto alle medie- dei germogli nelle vite degli studenti. Non sai che cosa ne verrà fuori. Poi però magari dopo anni li rincontri, e sono sbocciati.

Che cosa chiedono i ragazzi?
Ti chiedono autenticità. Ti chiedono una responsabilità completa, trasparente e reciproca nella relazione educativa. Se funziona, l’altro grande dono è che ti mostrano in maniera imprevedibile le loro vulnerabilità, le loro ferite e ti chiedono di prendersene cura insieme.

Ho conosciuto alcune situazioni molto dure -ragazzi maltrattati in famiglia, col papà in carcere…-, e il fatto che ti raccontino e ti affidino le loro fragilità è un grandissimo dono.

Ho in mente la storia di Ahmed: aveva 20 anni, veniva dall’Africa, analfabeta nella lingua madre, con me accanto ha scritto per la prima volta il suo nome, su un foglio. È stato come dire: esisto, ci sono anche io. È stata un’emozione grandissima, un dono indimenticabile.

In realtà la cosa che più mi piace dell’insegnamento è che tu pensi di fare dei doni, magari ci metti tanta passione, ma poi quel che conta è l’imponderabile. Improvvisamente, succede qualcosa che non ti aspetti.

Puoi essere molto attento a progettare – e io lo sono -, ma a un certo punto accade qualcosa che nessuno ha calcolato, né tu né loro. È il vero dono, è là che si genera il vero apprendimento. Per me è uno stimolo a chiedermi se c’è un altro modo di insegnare, di imparare. Questo spazio vuoto, questo buco, è il dono più grande dell’insegnamento, ma anche dell’apprendimento poiché si tratta di un flusso reciproco.

Accade anche nelle piccole cose: come ad esempio quella ragazzina con importanti disturbi dell’apprendimento, durante un esercizio, dice improvvisamente in inglese “se fossi un numero sarei uno, perché è piccolo ma anche il primo”. O quel ragazzino autistico che un giorno arriva con un disegno dei miei capelli ricci. Sono scintille che ti fanno immaginare modi diversi di fare lezione, che scombussolano i modelli e ti interrogano portandoti ogni volta doni inaspettati.

Rowan Jordan di Getty Images Segnature

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