Negli anni mi sono dilettata in diverse rendicontazioni. Progetti locali, nazionali, europei. Progetti piccoli e di grandi dimensioni, svolti in partneriato, oppure da un’unica organizzazione. Rendicontare mi ha sempre molto divertita.
Sebbene la mia formazione non sia prettamente economica, ho sempre avuto una certa predisposizione per il far di conto. I numeri, nelle organizzazioni, corrispondono sempre a qualcosa. Significano e raccontano storie, progetti e persone. E così, per nuda passione, ho iniziato a registrare fatture e a far quadrare i conti.
Questo lavoro, apparentemente tra i più noiosi al mondo, mi ha molto appassionato – così come poi ha continuato ad appassionarmi l’analisi dei dati. Ogni fattura, scontrino o notula racconta un pezzetto di storia. Per non parlare dei cedolini: la loro insita illeggibilità ci spinge a districarci con diligenza nella comprensione di netti, lordi, costi aziendali e storie di vita; dallo stipendio ai conti in tasca.
Così la via è stata breve: se ogni voce di costo è una storia, rendicontare un progetto è una narrazione. Raccogliere, ordinare e catalogare documenti premette di rappresentare il pezzetto di quel puzzle che ha permesso di arrivare a un risultato, soddisfare un bisogno, creare un impatto.
Eppure le rendicontazioni economiche piacciono a pochi. L’interesse generato da un rendiconto solitamente riguarda marche da bollo mancati, quietanze di pagamento illeggibili, F24 incoerenti. Gli/le stessi/e Auditor, scomodati per le verifiche del caso, mi hanno sempre chiesto – scrupolosamente e molto gentilmente – di rivedere fatture e pagamenti, senza sapere davvero a cosa corrispondessero, senza trovarvi davvero nessun pezzo del progetto realizzato.
Eccomi lì, avvilita: che grande fatica riportare tutto con grande precisione e dedizione se a nessuno/a interessa davvero la storia che faticosamente racconti.
Il fatto è che io stavo in una bolla: quella della mia organizzazione e dei progetti realizzati. La stessa bolla che mi permetteva di vedere il progetto nella sua complessità. La stessa bolla condivisa con i colleghi e le colleghe che si occupavano di tutti gli altri pezzi che permettevano a quel progetto di essere realizzato.
Gli enti erogatori sembravano restare sospesi e lontani in una bolla diversa, fatta di moduli, report, percentuali da rispettare, domande a cui rispondere.
Non ho mai visto queste bolle dialogare, interagire, mescolarsi. Sono sempre state molto lontane. E sebbene concordi con la necessità di dar conto di come vengono spesi i soldi erogati – siano essi privati, ma soprattutto pubblici – ancora oggi non riesco a trovare il motivo di questa distanza. L’unica risposta che riesco a darmi è che a volte è più semplice restare nella propria bolla, svolgere le proprie mansioni (erogative o progettuali), semplificare i processi. Ma se le bolle si unissero i nostri soldi sarebbero spesi meglio? Se al posto (o oltre) alla compilazione di una modulistica dettagliata venissero scoperti i progetti, se gli Auditor non ci visitassero solo alla loro conclusione di un progetto ma durante la sua vita? La bolla si allargherebbe fino a comprendere i contesti, i territori e le organizzazioni tutte?
Forse sarebbe più complicato, (non credo) più oneroso. Ma queste storie sarebbero raccontate meglio e ogni fattura prenderebbe vita. Fare i conti piacerebbe a tutti, molto di più.
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Foto Michael Walter @Unsplash