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A come Architettura

Da un dialogo con
Stefano Lucini, l’ideatore del logo di Excursus. Si occupa di architettura e sostenibilità. Appassionato di acqua, superfici, salti tra gli stati, materie. Ha vissuto tra Milano e il Messico, e ora risiede sulle sponde del lago Maggiore.

Il fare architettura si traduce in una parola: interdisciplinarità.
L’ architettura sta infatti in tutto ciò che permette di arrivare, tramite il confronto, il dialogo, la contaminazione, a un prodotto ed è lo strumento che fa intersecare i saperi per rendere il tutto finale come un insieme armonico delle parti che lo compongono.

Nella mia professione c’è una parte importante di psicologia e di analisi delle volontà delle persone con cui si ha a che fare. Spesso è necessario partire facendo un passo indietro rispetto al proprio ego, per mettersi in ascolto. Così accade anche in molte altre professioni: tradurre con il proprio gesto che diventa concretezza fisica ciò che si sta ascoltando senza rinunciare alla propria professionalità e creatività.
Essere architetto lo scopro infatti quotidianamente nel rapporto con chi ho davanti. Il rapporto con il cliente implica il rischio che si possa essere bravissimi architetti, capaci di produrre rendering perfetti o spazi esteticamente interessanti, ma cuciti male su chi si ha davanti. Mi è capitato a volte di aver steso un primo progetto, la prima bozza, con uno slancio creativo che poi è stato frustrato dal poco ascolto che ho messo nel gesto creativo, pensavo a me stesso e non al mio interlocutore. Fare un passo di lato rientra nella capacità di ascolto, è una metodologia che non ti fa rinunciare a te ma che cerca maggior comprensione delle complessità.

Non credo che l’architettura sia una persona sola che fa, ma è l’insieme delle parti che divengono. L’architetto deve essere un buon direttore d’orchestra, capace di far suonare bene i violini con il corno inglese, con l’orecchio attento e teso al coro con tutte le sue inflessioni e unicità. Così il mio lavoro deve mettere insieme molte professioni e professionalità, per rendere i progetti materia viva, senza farli restare su carta.
L’insieme delle parti è sempre più della loro somma: ci sono dentro tante persone, vite, sogni e aspettative. A partire dalla bozza iniziale, arrivare a un prodotto finale – che sia un appartamento, un armadio, una villa, un parco, un giardino – significa far dialogare il mio desiderio di fare un progetto con quello di vivere in uno spazio confortevole del mio cliente, ma anche con quello dell’elettricista e del muratore che vogliono fare un buon lavoro. La somma delle parti si arricchisce perché è fatta di tante cose che partono dalla volontà fondamentale di cucire un abito su misura. Paragono sempre il mio lavoro a quello del sarto: l’abito è uno spazio e lo spazio si definisce intorno alla persona che lì dentro ci abita.

Un buon direttore dei lavori deve assumersi la responsabilità di ciò che sta facendo, non solo in termini legali, ma anche nei confronti delle persone che concedono fiducia per la definizione fisica di uno spazio che racchiude la loro intimità. I nostri clienti riversano dentro lo spazio abitativo tante aspettative ed è comprensibile sia così. Negli spazi indoor viviamo la maggior parte della nostra vita e risulta evidente che dentro quello spazio vogliamo starci bene. Così, quando vediamo una casa capiamo sempre qualcosa delle persone che la abitano, la casa è dopotutto anche un nostro riflesso, come i vestiti che indossiamo raccontano qualcosa di noi.

Sebbene l’architetto sia anche colui che si crogiola nella fotografia patinata del risultato finale, sa che la parte più interessante del proprio lavoro è avere un punto di arrivo che viene modellato e modulato durante il percorso. Non ci sono linee rette, ma percorsi con quotidiani ostacoli, punti in cui il processo rallenta e permette di fare un passo laterale per poi riprendere in mano ciò che si dava per certo, così che venga rielaborato, ottenendo qualcos’altro. Non percorriamo un percorso di un’ora o di un giorno, ma attraversiamo un processo che può assorbire input diversi, da riordinare e far dialogare tra loro.
L’architettura è essa stessa una ‘parte’, che deve restare vigile e attenta a ciò che le avviene intorno; è espressione e specchio di un periodo, a volte diviene avanguardia, come molte altre arti, è immagine che diviene materia di un tutto e del suo essere.

In questo momento penso che anche nella pancia dell’architettura ci sia e un’istanza e un’urgenza, quella della decarbonizzazione. Stiamo aumentando la sensibilità ambientale, i nostri gesti e le azioni vanno in quella direzione, dal processo legato all’educazione a quello della produzione e del costruire che dovrebbe puntare sul riuso degli spazi, sulla rigenerazione urbana fatta di architetture, spazi, relazioni. I temi del riuso, del contenimento delle energie e dell’uso attento delle risorse, il contenimento dell’uso di suolo devono essere il focus centrale. Queste trasformazioni e queste energie devono camminare spedite, supportate da una volontà politica che sia lungimirante e pragmatica. La Biennale del 2025, presentata proprio in questi giorni, dal titolo Intelligences. Naturale. Artificiale. Collettiva ribadisce che l’architettura è interdisciplinarità. Non lo scopriamo di certo adesso, ma finalmente se ne parla di più, aumentando la nostra sensibilità, affermando che non siamo soli al centro del mondo.

L’architettura è per me un po’ come quella grande A rossa che si trova sull’edificio del Politecnico di Milano: è la prima lettera dell’alfabeto, tutto nasce da lì, ma è tale solo se diventa capace di assorbire e tradurre le istanze sociali, ambientali ed economiche con intelligenza; sostenibilità è quando questi fattori si intersecano e quando ciò avviene ne nasce un progetto che funziona. Si tratta di tasselli universali, che riguardano, oltre che l’Architettura, ogni progetto e ogni organizzazione.

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Foto Silvia Brazzoduro @Unsplash