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Evoluzioni culturali: politiche e sfide globali


Bertrand Niessen è il fondatore e direttore scientifico di CheFare, agenzia per la trasformazione culturale. Si occupa di cultura digitale, ricerca e divulgazione scientifica ed è autore di Abitare il vortice. Come le città hanno perduto il senso e come fare per ritrovarlo (Utet, 2023).

La cultura può contribuire a risolvere le grandi sfide globali che stiamo affrontando?

Dipende. Ci sono diversi modi di guardare la cultura. Negli ultimi10 anni in Italia, nel terzo settore e soprattutto in ambito sociale, si è iniziato a vedere la cultura esattamente come uno strumento, qualcosa per fare qualcos’altro. La cultura è diventata finalistica e viene ancora infilata dappertutto: la cultura per l’economia – penso alla retorica della cultura petrolio d’Italia, per cui ogni euro investito in cultura ne produce sei -, la cultura per la coesione sociale, la cultura utilizzata per migliorare disuguaglianze, povertà e marginalità. Ma anche la cultura per il welfare e per la cura: il modo migliore per prevenire una serie di malattie è andare a vedere le mostre.
Sono tutte intenzioni parzialmente giuste e parzialmente vere, che vanno tenute in considerazione. Ma hanno senso solo se inquadrate progettualmente e strategicamente guardando al motivo di esistere delle organizzazioni e delle politiche pubbliche e private.
La cultura viene pensata come un’area che ha un campo trasversale, che ha motivo di esistere di per sé, senza un bisogno di giustificazioni o strumentalità, perché ha a che fare con qualcosa che tocca praticamente tutte le sfere dell’aspetto umano, cioè l’accrescimento del sé e delle relazioni con gli altri.

Non corriamo il rischio di vivere un appiattimento generale del livello culturale nel considerarla un elemento trasversale, rischiando di perdere il suo valore intrinseco?

In realtà, considerare la cultura in relazione alle élite è un concetto che deriva proprio dalle élite. È evidente che il discorso pubblico si orienti in questa direzione, ma in sociologia, quando parliamo di cultura, non ci limitiamo all’opera lirica; abbracciamo tutte le forme di produzione culturale che emergono dal basso. Partendo da questo presupposto è molto difficile considerare più valida o più interessante o più culturalmente rilevante un’area d’opera rispetto a un pezzo Trap che dei ragazzini hanno composto sul loro divano. Dopodiché, all’interno di ciascuno di questi ambiti, con delle variabili enormi su cui potremmo discutere per anni, esistono i Capolavori.
Il tema grosso però rimane fermo: chi decide che cosa è cultura? Esiste un problema di democratizzazione legato all’accesso a forme di cultura che offrano un taglio critico, soprattutto per persone che tradizionalmente non hanno strumenti per accedervi. Ma quello che abbiamo visto in questi anni è che, in realtà, la produzione manistream sa stare nel mercato molto più della cultura tradizionale: la Trap fa dei numeri che la musica classica non ha mai avuto.
Bisognerebbe allora definire quanti soldi dare alla cultura: l’Italia, che campa della retorica del paese con il maggior numero di opere d’arte, la tradizione musicale più antica ecc. è invece un paese che destina una quantità infima di risorse pubbliche alla cultura – di cui la stragrande maggioranza al Patrimonio. Queste risorse andrebbero almeno raddoppiate e solo dopo sarebbe possibile iniziare a discuterne.

Audience development e Audience engagement sono stati termini chiave degli ultimi 10 anni, finanziati e adottati da moltissime organizzazioni. Hanno funzionato? 

Io considero questa fase come una stagione positiva. Ma ha funzionato a macchia di leopardo. Si vede molto chiaramente che hanno lasciato l’impronta nei territori dove si è speso di più. Noi lavoriamo tantissimo con Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta insieme a compagnia di San Paolo. Qui erano stati pubblicati bandi dedicati, diventati strumenti di politiche pubbliche, per cui è stata fatta formazione. Ma non in tutti i territori e nemmeno in tutti i settori queste pratiche sono state sperimentate.
Inoltre, alcuni settori sono più predisposti a questa trasformazione, altri meno. Se ad esempio nelle Performing Arts è molto palpabile, i musei più tradizionali sono rimasti tendenzialmente impermeabili alle novità introdotte.

Come sarà il futuro di queste politiche?

Anche il futuro continuerà a essere a macchia di leopardo. C’è questa frase bellissima di William Gibson che dice che Il futuro è già qui, solo che non è equamente distribuito. È quello che sta avvenendo: vi sono traiettorie molto diverse tra loro che stanno andando avanti parallelamente. C’è un insieme di istituzioni culturali tradizionali che non si sta muovendo in nessun modo. Mi riferisco anche a grandi istituzioni, che magari hanno ottenuto fondi per la transizione digitale o per la transizione ecologica ma che non hanno le competenze e la visione per cambiare e restano tradizionali e tradizionaliste. Ci sono invece alcune tendenze di trasformazione, coloro che chiamo gli Innovatori a tutti i costi. Stiamo vivendo una spinta fortissima sull’intelligenza artificiale e su questioni legate alle trasformazioni tecnologiche, con una wave che tutti cercano di cavalcare, ma che non sappiamo bene dove andrà. Ne abbiamo viste altre negli ultimi 15 anni: bolle di entusiasmo, in cui spesso sono stati spesi tantissimi soldi – basti pensare a quello che è successo con le cryptovalute negli anni passati.
Ciò che è interessante però sono i nuovi approcci allo sviluppo di forme culturali partecipative consapevoli, la costruzione di nuove relazioni a rete sui territori, dove istituzioni culturali anche tradizionali -come musei, teatri, biblioteche – collaborano con soggetti del terzo settore con uno sguardo innovativo, per produrre forme di cultura che abbiano senso per tutti. Sono formule che si stanno diffondendo velocemente, soprattutto in Europa. È un processo molto interessante perché si tratta di forme vicine alle dimensioni locali, a misura di persona, che se ben fatte non rinunciano alla dimensione sperimentale.

La cultura ci salverà?

La cultura può fungere da infrastruttura, ma è solo uno dei molti strumenti che abbiamo a disposizione per salvarci.

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Foto Eric Nopanen @Unsplash