Luigi Montagnini è medico chirurgo specializzato in anestesia e rianimazione. Dopo essere stato a Varese, Londra, Genova e Alessandria, ora lavora a Milano, dove sta collaborando all’apertura di una nuova Terapia Intensiva Pediatrica. È membro di Medici Senza Frontiere, con cui ha operato in diversi contesti ad alta conflittualità.
La rabbia negli spazi di cura è istituzionalmente consentita? Come viene accolta o contenuta?
Sicuramente la rabbia è presente a livello istituzionale. Ma più che rabbia, spesso si tratta di frustrazione o senso di abbandono. Un abbandono che può manifestarsi nel lasciare il posto di lavoro, ma anche nel disinvestire tempo, energie, ricerca e studio in ciò che si sta facendo perché si ha la sensazione di fare qualcosa di inutile. Non è tanto un problema di lentezza istituzionale – quella può essere accettata, sapendo che ci sono regole, procedure e ostacoli da affrontare. La rabbia nasce dalla mancanza di progettualità.
Rendersi conto che si vive alla giornata, che certi problemi non vengono risolti non per mancanza di tempo, ma per mancanza di volontà, è ciò che provoca frustrazione. Non è una lentezza, è un blocco. È come percorrere una strada trafficata: se sai che, anche lentamente, arriverai a destinazione, puoi tollerare l’attesa. Ma se sei bloccato in un ingorgo o ti rendi conto che quella strada non porta da nessuna parte, perché non è mai stata completata, allora è tutta un’altra storia. La rabbia si esaurisce, ci si stanca perfino di essere arrabbiati.
Dal punto di vista professionale, è raro che questa rabbia sfoci in violenza. È una rabbia cronica, potremmo dire ‘istituzionalizzata’, perché si vive quotidianamente nella routine, genera amarezza e disaffezione che rischiano di non lasciare altra via d’uscita se non quella delle dimissioni.
Di recente Il Post ha pubblicato un articolo sui medici che abbandonano il posto fisso negli ospedali pubblici: anche io talvolta mi chiedo perché restare, guadagnando la metà rispetto al collega chi si è licenziato e torna in ospedale non più come dipendente ma come libero professionista, rinunciando però alla continuità con il lavoro degli altri colleghi e perdendo la dimensione di equipe.
Quando viene a mancare il senso di appartenenza, la progettualità, vengono a mancare anche la continuità nelle cure dei pazienti, il lavoro di squadra, l’investimento sul miglioramento di un servizio.
Vi arrabbiate tra colleghi?
Sì, tra di noi ci arrabbiamo. Ci scaldiamo, perché lavoriamo nella frenesia, in condizioni di sovraccarico, e non sempre le persone con cui ti confronti vedono le cose al tuo stesso modo.
Tuttavia, almeno per quanto riguarda le realtà che conosco io, non trovo che questa rabbia si concretizzi in una mancanza di cura verso il paziente. Piuttosto, può manifestarsi in una carenza di comunicazione o in una freddezza nella relazione con i pazienti. Può succedere che si diventi meno disposti a spiegare e parlare con le persone, dimenticandosi che anche il tempo dedicato al colloquio con i pazienti è tempo di cura, oltre che una responsabilità etica e professionale.
Esistono contesti istituzionalizzati in cui potete esprimere la vostra rabbia?
Per quanto riguarda l’ospedale come organizzazione, non esistono di norma spazi istituzionali per accogliere questa rabbia o per far sì che diventi qualcosa di proficuo, nel senso che non esistono progetti di supervisione o di accompagnamento se non in rarissime realtà.
Al momento sto lavorando a un progetto per l’apertura di un nuovo reparto di Terapia Intensiva Pediatrica. Nella rete che sto costruendo c’è anche una psicologa che si occupa di supervisione all’interno dei gruppi. Abbiamo avviato un percorso con lei, che ci accompagnerà sin dall’inizio del nuovo reparto. Stiamo costituendo un gruppo nuovo, composto da persone che in alcuni casi non si conoscono e non hanno mai lavorato insieme. In più, lavoreremo in un contesto che, per definizione, consuma moltissime energie e risorse. L’ambito delle cure intensive richiede una disponibilità costante e a ciò si aggiunge l’aspetto emotivo, legato ai bambini e alle famiglie. Per questo abbiamo già deciso di prevedere un supporto psicologico.
Si tratta però di una cosa più unica che rara: negli ospedali mancano ancora sia la cultura di aiutare i gruppi a elaborare le loro dinamiche sia le figure professionali capaci di farlo. Non si percepisce il bisogno di questa elaborazione.
Si tratta di una situazione tipicamente italiana?
Ho lavorato al Charing Cross Hospital, un ospedale pubblico londinese, per un anno. E lì c’è una modalità di affrontare certe questioni che è completamente diversa. Ti faccio l’esempio dell’errore, che anche in medicina è inevitabile. Nel 90% dei casi è legato al singolo, alla persona. Però, in un sistema ben strutturato, l’obiettivo non è puntare il dito contro chi ha sbagliato, ma analizzare il contesto in cui è successo: individuare le condizioni che hanno favorito quell’errore e intervenire sul sistema per evitare che si ripeta. Questa cultura in Inghilterra esiste da decenni: ci si siede attorno a un tavolo per discutere di cosa è successo, senza paura di essere giudicati. L’obiettivo non è colpevolizzare, ma capire come sia stato possibile e cosa fare per evitare che accada di nuovo.
In Italia, invece, solo recentemente questa mentalità ha iniziato a svilupparsi. Per fortuna, all’interno degli ospedali sono previsti organi deputati alla gestione dell’errore e del rischio clinico. Tuttavia, il processo dipende ancora dalla soggettività del singolo che decide autonomamente se segnalare o meno situazioni di rischio che potrebbero generare errori, spesso senza adeguato supporto da parte dei propri responsabili.
È una questione culturale: la gestione della rabbia, delle dinamiche di gruppo e della prevenzione dell’errore non viene percepita come una necessità collettiva. È molto diverso rispetto, ad esempio, a contesti come quelli di Medici Senza Frontiere, dove il confronto e la gestione delle conflittualità all’interno del team sono la norma. Le difficoltà relazionali vengono subito percepite come un rischio per il sistema e affrontate in modo condiviso. Da noi, invece, manca proprio un modello culturale che permetta di applicare questa modalità.
Detto questo, la sanità italiana, almeno in Lombardia, resta un sistema d’eccellenza. Abbiamo ottime università, ricerca di alto livello e centri di formazione validissimi. Questa qualità si autoalimenta nel tempo. In Italia c’è ancora, almeno in parte, la percezione del ruolo del medico come una missione: richiede tempo, energie e risorse personali. Tuttavia, con tutta la frustrazione del caso, ci si chiede: Perché questa missione deve ricadere solo su di me, quando poi a livello aziendale il mio lavoro non viene riconosciuto? Questo è il grande tema della qualità.
Esiste una cultura dell’accoglienza della rabbia e della sofferenza del paziente?
Fa parte del nostro percorso formativo l’imparare a rapportarsi con il paziente, a gestire ciò che ci comunica, ad accogliere quello che dice. Ma una cosa è studiare queste tematiche, un’altra è agirle. E, una volta applicate, non c’è nessuno che ti dica: Questa cosa l’hai gestita bene, oppure Questa andrebbe migliorata. Nella stragrande maggioranza dei casi non c’è un sistema che ti dia feedback su come hai gestito certe situazioni. Diventa una sorta di autoformazione o formazione tra pari: ascolti un collega, magari gli dai un consiglio su come avrebbe potuto dire qualcosa diversamente, ma non sai nemmeno tu se quel consiglio sia corretto.
Inoltre, certe comunicazioni si basano sul rapporto di fiducia che hai costruito nel tempo con un paziente. Introdurre figure esterne, che possano osservarti e aiutarti all’interno di queste dinamiche diventa complicato. Alla fine, il risultato è che dovremmo sapere gestire la rabbia, ma non sempre siamo in grado di farlo nel modo opportuno. E sono sicuro – anche se non ho dati per dimostrarlo – che in molti casi in cui un parente arriva a mettere le mani addosso a un medico, è perché il medico è stato incapace di comunicare empaticamente. Ovviamente, questo non giustifica mai un’aggressione: alzare le mani non è accettabile. Ma conosco tanti colleghi che trattano i pazienti in maniera altezzosa e capisco che un parente o un paziente possa sentirsi incompreso. È un circolo vizioso, tra la rabbia e la frustrazione del paziente e della sua famiglia e quella del medico, che influisce negativamente sulla sua capacità di comunicare e sulla sua empatia.
Non esistono protocolli specifici per affrontare queste situazioni. Ci sono iniziative formative, meeting interni e corsi per gestire pazienti o parenti violenti, ma spesso ci si concentra solo sul contenimento della reazione del paziente, senza mai analizzare il contesto che ha generato quella conflittualità.
Quello che temo è che non ci sia una vera riflessione sul fatto che, se gestissimo certe situazioni meglio fin dall’inizio, avremmo meno conflitti.
Spesso le persone non sono arrabbiate solo con te come medico ma con il sistema sanitario, con la vita stessa, con le difficoltà che stanno affrontando.
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Foto Will Truettner @Unsplash