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La sostanza che trasforma

Roberta Rocelli è project manager nel settore culturale. Dal 2016 dirige il Festival Biblico che nel 2024 terrà sua la sua 20° edizione.

Quanto pesa la sostanza in quello che fate?

Noi ci occupiamo di organizzare un Festival. Per questa sua natura ibrida, fatta di eventi, temi e svariate attività, siamo tenuti a modificare costantemente la nostra sostanza, quindi a rinnovarci, a cambiare pelle, ad essere una cosa diversa ogni volta. Non tanto per una questione di mode, quanto perché le persone mutano, cambiano e lo fanno in modo repentino, a volte irragionevole. Il termine festival è quello che indica la nostra continua necessità di ricerca, di mutazione, di adattamento nei format e nella cornice, di cosa facciamo, come e dove lo facciamo. Partire dalle Sacre Scritture è il nostro punto fermo, la nostra sostanza, ciò che non muta.
Noi ci occupiamo di far conoscere le Sacre Scritture in qualità di codice culturale, per metterci faccia a faccia con la contemporaneità e l’attualità, proprio perché le Sacre Scritture possono essere un criterio, un punto di partenza per ragionare sulle cose. Si tratta di una sostanza con una storia di più 2000 anni, che vale a dispetto di qualsiasi ragione di fede: puoi avere o non avere fede, puoi essere in un certo percorso di ricerca spirituale, ma anche di qualsiasi altra tradizione religiosa, eppure le Sacre Scritture sono significative perché offrono un apporto al ragionare, al confrontarsi con la contemporaneità.

L’ultimo rapporto del Censis, il 57°, definisce gli italiani come “sonnambuli a dispetto di cupi presagi”.
È proprio contro questo sonnambulismo a cui lavora ogni singolo festival culturale. Ciò che cerchiamo di fare è prenderci cura delle menti, del pensiero critico delle persone, dei pubblici che scelgono di alzarsi dal loro divano per partecipare a qualcosa. Attraverso incontri, esperienze culturali, situazioni più leggere come il nostro cafè culturale dAbar, creiamo una cornice che aiuta a mettere in campo una Sostanza che per noi è pura -non perfetta- da cui attingiamo da vent’anni a questa parte. Così il tema che abbiamo scelto per la ventesima edizione del Festival è Agape che riferisce il concetto di amore espansivo. Si tratta di un argomento molto contemporaneo: in questo momento, in cui preferiamo ammazzarci, aggredirci e depredarci, Agape è un concetto desintonizzato. Ma la sostanza per noi è proprio restare fermi all’interno di ciò che crediamo sia rilevante.

Riuscite a misurare la sostanza?

Ogni anno il Festival compila una rendicontazione. Ma io credo che non esista in questo momento una modalità sufficiente, corretta, equilibrata per misurare l’impatto degli eventi culturali in una città o all’interno di un contesto economico sociale. Noi adottiamo una scala di indicatori, che indica quante cose facciamo, quanto pubblico partecipa, quanti luoghi facciamo scoprire, la diffusa richiesta di ospitalità che muoviamo all’interno delle città in cui siamo, in sintesi quanto e se alimentiamo il flusso del turismo culturale. Tutto questo è misurato ogni anno e per noi è importantissimo consegnarlo nella maniera più trasparente possibile a tutti i nostri interlocutori. Ma non c’è un modo davvero efficace per misurare l’impatto trasformativo che possiamo provocare nel pubblico.

All’interno di ogni rendicontazione aggiungo sempre un testo scritto, descrittivo; nel rendiconto 2023 riportavo che una relatrice del Festival è partita una domenica mattina per raggiungerci e tenere la sua relazione a Vicenza, nonostante il marito fosse molto malato. Come faccio a misurare questi gesti, profondamente trasformativi, simbolici, persino politici? Con un sistema di rendicontazione che non mi corrisponde, come faccio a misurare le scelte etiche che faccio? Posso raccontare quanti visitatori ho avuto ed elencare i miei migliori numeri, ma non è così che misuro la sostanza. Perché la sostanza è molto umana, etica, emotiva, anche trasformativa dal punto di vista del pensiero critico, ma è troppo impalpabile per riuscire a misurarla se non interrogando ogni tanto il pubblico, chiedendo di fatto come si è stati al Festival, come ci si è trovati, se esiste un motivo per tornarci, o meno.

Viviamo poi un momento molto confuso rispetto ai criteri culturali che ci consentono di definire la partecipazione. La pandemia ha causato una frattura secca: oggi incentivare e invitare alla partecipazione è molto difficile. Tanto che, a un certo punto, all’interno del mio gruppo di lavoro ci siamo chiesti se fossimo ancora in grado di intercettare i bisogni del pubblico e dei pubblici, in continua fase di cambiamento. Abbiamo quindi iniziato a chiederci cosa avrebbe potuto portare noi stessi a partecipare e stiamo lavorando molto con questo criterio guida, consci del fatto che non è esaustivo ed è perfino banale, però è l’unico coerente e reale che abbiamo rintracciato per fare delle cose che pensiamo siano responsabili e serie.

Come si condivide la sostanza all’interno di un gruppo di lavoro?

Dopo la pandemia abbiamo costruito una nuova consuetudine nel nostro modo di lavorare. Eravamo abituati a vederci e a lavorare in presenza. Poi abbiamo imparato a lavorare da remoto. Ma l’unica cosa che non abbiamo mai smesso di fare è stata il porci continuamente delle domande. Lavoriamo a distanza, abbiamo imparato a consumare meno, a sprecare meno, a viaggiare meno, ma non abbiamo perso la consuetudine di domandare. Io arrivo dalla scuola di Danilo Dolci, che lavorava con le domande da poeta e pedagogista quale era, per sollevare in maniera maieutica il sapere già posseduto e presente nelle persone. Questo è l’approccio che abbiamo, certamente con il Festival ma anche con noi stessi.

Abbiamo anche molti difetti e ciascuno di noi porta le proprie rigidità, le proprie paure nel gruppo di lavoro. Però quella necessità di ricerca e di cambiamento ci induce ogni volta a creare nuovi scenari. Quando facciamo questi ragionamenti in gruppo, al di là delle cose puntuali di cui ciascuno si occupa, lavorare per scenari ci ha permesso, di volta in volta, di stare in piedi anche nei momenti di crisi. Così, se viene a mancare un contributo importante da un bando, per esempio, cerchiamo di costruire alternative possibili, chiedendoci non solo come può cambiare la nostra programmazione o come trovare nuovi sponsor, ma ci interroghiamo rispetto a ciò che possiamo dire al pubblico, a come sensibilizzare le persone e come ripresentare il nostro progetto culturale. è un continuo rimettere in discussione quello che facciamo in tutti i mesi nei quali lavoriamo per arrivare da una edizione del Festival alla successiva, passando dal pensiero alla sua realizzazione. In questo tempo siamo attraversati da una serie di stagioni di cambiamento costanti e alcune cose nel frattempo si estinguono. Ma questa consuetudine alle domande è il punto chiave con cui lavoriamo e che ci permette di andare avanti.

Se le organizzazioni sono degli iceberg di cui riusciamo a vedere solo la punta, cosa accade quando i ghiacci si sciolgono?

Io credo molto nella fine dei cicli di vita, nel fatto che le cose debbano anche morire. Se una cosa non si scioglie, non fa spazio per null’altro e nulla da lì potrà generarsi. Nessuno sta pensando di chiudere il Festival Biblico, ma che è proprio perché ragioniamo per scenari che abbiamo il dovere di ipotizzare anche lo scenario in cui il Festival Biblico non dovesse esserci più. Potrebbero esistere altri progetti culturali, una scuola che abbia a che fare con l’approfondimento delle religioni ma anche altro. Chissà!

La fine è una cosa che va contemplata quando si è in buona salute. Le exit strategies vanno ben ragionate proprio nel momento in cui le cose funzionano. Noi abbiamo già iniziato a farci queste domande, soprattutto oggi che compiamo vent’anni: è un atto responsabile quello di chiederci quanto ci sia ancora bisogno del Festival, con quale senso e con quale modalità invitare il nostro pubblico ad aderire a questa esperienza e perché, che tipo di cultura offrire e con quale finalità. Così l’espressione “welfare culturale” ci è molto cara, perché crediamo che attraverso un certo tipo di cultura possiamo prenderci cura delle persone.

Ragioniamo continuamente su queste questioni e siamo anche pronti al fatto che l’iceberg possa sciogliersi. Le modalità di chiusura sono parte integrante di ogni progetto che funziona, proprio perché funziona e ha ancora molto da dire ma chissà in quale altri modi/tempi/spazi.

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Foto Zoltan Tasi @Unsplash