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Libertà tessuta: veli, integrazione e autodeterminazione femminile

Da un dialogo con
Sumaya Abdel Qader, sociologa e attivista impegnata nella promozione dell’integrazione, del dialogo interculturale e nella lotta contro ogni forma di discriminazione. Recentemente è stata consulente alla sceneggiatura per la quarta stagione di SKAM Italia.

Negli ultimi anni è stato molto forte il dibattito sull’abbigliamento delle donne musulmane nello spazio pubblico, che è legato ovviamente alla copertura del corpo, a volte anche del viso. Si tratta di una situazione paradossale perché viviamo in un paese in cui le persone sono libere di vestirsi come vogliono, di associarsi come vogliono e di riunirsi in spazi pubblici o privati nei termini di legge. La scorsa estate, per esempio, in uno spazio privato, una piscina affittata esclusivamente, non è stato permesso a un gruppo di donne di radunarsi insieme, esprimere liberamente la propria libertà di vestirsi e di svestirsi, di essere presenti come donne, solo perché la richiesta veniva da donne velate. Si tratta di un fatto grave che ha limitato la libertà e ha riproposto l’idea che è lo Stato a decidere come si debbano riunire e vestire le donne.

Ciclicamente si propone la questione di come le donne musulmane si devono vestire. In Francia sappiamo che è vietato il velo negli spazi pubblici; da poco è stato introdotto anche il divieto di indossare la tunica lunga, che secondo lo Stato francese rappresenta l’Islam. Questo abbigliamento, indossato da molte donne musulmane, ha un tratto etnico, non è religioso ed è tipico di certi paesi. è già stato vietato nelle scuole e in alcuni spazi istituzionali pubblici perché rappresenterebbe un’ostentazione della religione. L’istituzione ha definito e ridefinito il suo significato di simbolo religioso, quando non lo è affatto: un modo di vestirsi è inadeguato perché la Repubblica deve essere neutra, così come lo spazio pubblico.
In Italia stiamo cominciando ad andare in quella direzione, nel senso che ci sono politici che spingono per annientare – almeno dal punto di vista dell’abbigliamento – le differenze, con un accanimento particolare per le donne musulmane. Regione Lombardia, per esempio, vieta il niqāb nei servizi sanitari.

Voler regolamentare come si vestono le donne musulmane sta creando un grosso problema da tanti punti di vista, anche rispetto all’autostima delle giovani donne che portano il velo con difficoltà; non si sentono di sobbarcarsi il carico e lo sguardo sociale, di essere giudicate per il velo; c’è un tema di discriminazione molto forte legato agli spazi di lavoro – in Italia meno che in altri paesi, ma la questione si sta sollevando.
Dall’altra parte, invece, c’è la rivendicazione di volersi abbigliare secondo la propria tradizione di origine. E questo lo vedo molto tra le seconde generazioni, musulmane e non. C’è la voglia di ritornare a esprimersi attraverso i propri segni identitari, culturali, di origine. E quindi recuperare il modo di vestirsi della nonna nel proprio paese di origine, senza vergognarsi o aver paura nel farlo.

C’è poi un’altra traiettoria: il corpo femminile nello spazio pubblico dà fastidio, trasversalmente a tutte le culture, a tutte le religioni. L’occhio maschile verso le donne – ma anche lo sguardo femminile che ha interiorizzato quello maschile – sessualizza il corpo delle donne, che è concepito come un oggetto pericoloso, che va coperto. Ancora oggi se vediamo una ragazza con un’ampia scollatura tendiamo a giudicarla. Non più come una volta, ma c’è un ritorno – anche di ignoranza – per cui non si gestiscono più le differenze, non le si comprendono. Si stanno perdendo delle conquiste che si sono fatte rispetto alla libertà delle donne. Lo vedo molto anche sui social, attraverso i commenti delle donne sulle donne e degli uomini sulle donne, su come si vestono, su come appaiono nello spazio pubblico. C’è sempre uno sguardo filtrato, che è uno sguardo maschile.
La percezione di te davanti agli altri è condizionata ed è facile pensare che se sei come gli altri vieni vista come più bella. È un problema di non accettazione di sé.

Viviamo un periodo storico in cui c’è davvero tutto e l’opposto di tutto. Tra questo, c’è anche un grande fermento di sviluppo, di idee e di prospettive. Come in tutti i momenti di crisi ognuno cerca la propria strada, cerca di abbattere ciò che ci soffoca e si sviluppa la creatività. Ne sono un esempio le sfilate di moda degli ultimi tempi: c’è tanta fantasia, c’è anche l’impossibile. Le forme, le linee, le scarpe che nessuno si metterebbe, sono diventate comuni. In aprile andrò a Istanbul alla Modest Fashion Week: anche qui tutto sta cambiando perché è cambiato il concetto di modest. La modest di una volta era collegata al pudore del non ostentare il corpo; adesso c’è un’esplosione di forme, di colori, di tessuti, di fantasia. Non è più il velo che fa la donna musulmana, perché la donna musulmana è oltre il velo. Sono cambiamenti forti, legati anche a nuove interpretazioni religiose, che portano le donne musulmane a non vedersi più legate solamente al loro modo di vestire, prevedendo anche un recupero della femminilità. Nella Fashion Week di quest’anno sono stati inclusi gli uomini e ci saranno anche non musulmani; c’è un’apertura, in parte in funzione del business, ma anche per i processi culturali che stanno spostando tutto da un’altra parte, in piena esplorazione.

Le nuove generazioni hanno assimilato il concetto di differenza, in parte, non tutte. I giovani stanno lavorando su sé stessi, sull’accettazione, sul fatto che esiste una pluralità al di là di quello che ognuno è. Stanno costruendo un’identità in un mondo che non ha riferimenti forti, dove tutto è liquido, da ogni punto di vista. Trovo i ragazzi molto curiosi, molto desiderosi di esplorare. D’altra parte, a volte si chiudono per paura, anche per la paura del giudizio degli adulti.

Quando mi hanno chiamata per partecipare a Skam Italia mi hanno chiesto di lavorare al profilo di uno dei personaggi della serie e di collocarlo in relazione con gli altri. C’era un desiderio di autenticità da parte del regista che è stato un passaggio importante. Ma dobbiamo far crescere questa consapevolezza: non vediamo quasi mai persone con background etnico diverso che fanno i conduttori in televisione o nei telegiornali. Nella vita quotidiana queste barriere le stiamo superando attraverso la presenza di persone ovunque e a qualsiasi livello. Tutto ciò non è rappresentato nelle istituzioni, nella televisione, ma è presente sui social, che hanno un modo autonomo di definirsi e di svilupparsi, perché non hanno una regia. Stanno nascendo moltissime figure, personaggi molto seguiti dai ragazzi afrodiscendenti o musulmani, che si raccontano, si auto-narrano alle loro regole. Hanno conquistato fette di pubblico, milioni di visualizzazioni e di follower. In questo senso i social stanno contribuendo a liberare i giovani dagli schemi degli adulti, dando loro la possibilità di crescere in altre direzioni.

Per quanto mi riguarda mi ritengo una donna libera. Faccio sempre le mie scelte – anche controcorrente – sia internamente alla comunità musulmana sia nella società. Devo dire che però ho trovato poca solidarietà da parte delle donne, in generale; senza generalizzare, da una parte venivo vista come quella che voleva fare l’occidentale e uscire fuori dagli schemi tradizionali, emancipata, indipendente; dall’altra parte, la società civile italiana mi vedeva non libera, subordinata a una presunta regola di sottomissione della donna. In particolar modo quando mi sono candidata come consigliera comunale ho avuto grande difficoltà con una parte di femminismo italiano che mi ha contrastato fortemente perché non credevano nella mia scelta di indossare il velo. Non mi riconoscevano la piena libertà di volerlo indossare. Ancora adesso ci accusano di ri-coprirci, dopo le grandi battaglie che le donne hanno combattuto per potersi spogliare. Ma il mondo musulmano non è un blocco unico, monolitico: ci sono donne sottomesse e ci sono donne liberissime di fare una scelta di percorso spirituale che prevede anche di indossare il velo. Infatti, ho una figlia che indossa il velo e una figlia che non lo indossa: hanno libertà di scelta. Non si riconosce alle donne musulmane la capacità di avere consapevolezza, di avere un approccio critico, di fare scelte diverse. C’è un pezzo di femminismo che vede solo nell’aderenza al proprio modello la libertà delle donne. Ma ciascuna di noi ha una sua sensibilità e vede la sua libertà in modo diverso.

Credo nell’autonomia, anche economica, ma ciascuna ha diritto alle proprie scelte senza giudizio, anche se non rispecchiano la mia idea di libertà e di essere donna.

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Foto Kenza Benaouda @Unsplash

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