Da un dialogo con
Betti Franciosi, psicoanalista e fondatrice di ArtUp, organizzazione non profit che ha sviluppato un metodo per percorrere le zone d’ombra di ciascuna e ciascuno attraverso l’arte.
Per rispondere al quesito la cultura ci salverà? ho iniziato a chiedermi cosa vuol dire Cultura. Se cultura è avere bisogno, voglia e desiderio di confrontarci con la storia del passato, allora la cultura è assolutamente fondativa della possibilità di pensare il nostro pensiero, insieme a quello degli altri.
Ma nella cultura, così come la usiamo a volte in Occidente, ci sono elementi critici che producono la non-salvezza – dove con salvezza intendo la capacità di anticipare le grandi catastrofi dell’umanità. Ci sono proprio delle strategie che la cultura, se utilizzata in un certo modo, produce negativamente; tra queste, le tematiche degli estremismi.
In questo periodo ho riletto I sommersi e i salvati di Primo Levi. Egli afferma che la cultura può salvare l’individuo: coloro che avevano una speranza, una fiducia in una divinità o in una ideologia, sopravvivevano più a lungo nei campi di concertamento. Ma dal punto di vista del potere della Cultura di anticipare le grandi catastrofi, gli equivoci e i danni che l’occidente ha promosso, Levi apre ad altre riflessioni: quando c’è un estremismo delle rappresentazioni, delle religioni o delle ideologie, la polarizzazione complica il dialogo e chiude ogni dimensione strategica e politica.
Nel mondo occidentale abbiamo prodotto progresso e democrazia, ma al contempo abbiamo creato zone grigie in cui si sviluppa e cresce la dimensione degli estremismi. Siamo abituati a vivere in un mondo che è bianco o nero, fascista o comunista; nel mezzo vi è un insieme di soggettività che a causa della loro pavidità producono grandi problemi. Dobbiamo lavorare per una Cultura che sia in grado di riconoscere la storia (come Giambattista Vico ci insegna, per non ricadere nella ripetitività dei nostri errori e tornare sempre allo stesso punto) ma anche di trovare nuovi modi per uscire dalla zona grigia, aprendo con la mente nuovi angoli di visuale. Allora sì che la cultura serve, perché permette di vedere modalità, parole, concetti che sono nocivi, per avere l’occasione di affrontarli. Tra questi concetti nocivi vi sono quelli di Identità, Appartenenza, Radici. Si tratta di termini considerati fondanti, negativizzati perché polarizzati nel pensiero: l’identità è diventata ossessione e l’Appartenenza ha escluso tutti coloro che non appartengono. Senza fare cultura lessicale, dobbiamo provare a ragionare su questi termini, trasformati in concetti, metodiche dell’agire umano che ci bloccano in quella zona grigia fatta di incertezza, di forse, di faccio ma non faccio, piena dell’incapacità di assumersi una responsabilità. Questo combinato disposto sta producendo una catastrofe dell’umanità.
Possiamo allora avere la presunzione di provare ad affermare una nuova visione (vicina a Ugo Morelli e François Jullien), che io definisco il Balletto della complessità, ovvero riuscire a aprire vertici di visioni, e di poterli nominare, spostando dalla propria visione chi sta dentro una determinata cultura. Si deve provare ad avvicinarsi e a lavorare dentro la zona grigia, affrontandone la pavidità.
Simona Forti parla di paradigma Dostoevskij (I nuovi Demoni, Feltrinelli 2012): l’autore è riuscito a descrivere il male in completa opposizione al bene assoluto, senza entrare nelle tematiche religiose. Nella nostra cultura, il male esiste e viene polarizzato in opposizione al bene. Tuttavia, affinché bene e male possano coesistere, è necessaria una dimensione intermedia che ne consenta l’esistenza; una dimensione che è di per sé terrificante. E così nei Demoni c’è il Male assoluto, nutrito e liberato nel corso della storia, lo stesso male che ritroviamo oggi, attraversando la seconda Guerra mondiale fino ad arrivare a Gaza. Ci sentiamo impotenti davanti a questo Male: non possiamo fare molto, ma spesso non siamo in grado di fare nemmeno quello che potremmo utilizzando le nostre competenze, con le nostre possibilità e in base a dove siamo posizionati.
E allora mi chiedo cosa potremmo fare noi psicanalisti quando affrontiamo tematiche di conflittualità accese, posti di fronte alla polarizzazione del giudizio? Ci dobbiamo sforzare per tenere vispa la possibilità di non cadere vittime di un pensiero che funzioni attraverso la polarizzazione. E se la psicanalisi è consapevole del fatto che la polarizzazione aiuta a semplificare, a ridurre la conflittualità dentro di sé e a mettere fuori il nemico, deve comunque essere in grado di mantenere vivo il dialogo per aprire dei cardini di individualità. La psicanalisi deve iniziare a chiedere cosa sente l’individuo dentro di sé quando si parla di Radici, di Appartenenze, di Identità. Deve quelle resistenze che ci impediscono di vedere la Tecnologia come uno strumento che può aiutarci a capire come siamo fatti dentro, piuttosto che come elemento per manipolare la realtà. Deve spronarci a trovare delle aperture e ad assumerci le responsabilità, attraversando e sciogliendo con le sue domande la zona grigia.
Dovremmo tutti provare a immaginare dei micro piani strategici continui, che tengano conto dell’aspetto personale, della capacità di pensare i pensieri, di che cosa sappiamo fare, di quale competenze abbiamo a disposizione per arrivare ad un agire politico e concreto. Così soltanto possiamo provare riuscire a trasformare la zona grigia, che ci compone e che rappresenta la maggior parte di ciò che siamo. Perché uscire dalla zona grigia significa arrivare a un punto che si chiama Azione.
>> Leggi tutte le Riflessioni che fanno parte di questa newsletter
Anna Sullivan @Unsplash