da un dialogo con
Stefano Laffi, sociologo e fondatore di Codici ricerche, dove si occupa di ricerca, consulenza, valutazione e formazione. Da anni cura progetti di partecipazione e presa di parola da parte della cittadinanza, nonché incontri di progettazione e rigenerazione di centri giovanili, scuole, biblioteche e spazi pubblici.
Abbiamo sempre cercato le bolle. Non è un dato di oggi – dell’algoritmo – l’averci chiuso in una bolla. Credo ci sia sempre stata una sorta di tendenza a ritrovarsi fra simili, ad avere attorno coloro che la pensano come te, che seguono i tuoi orientamenti di gusto, politici, con abitudini simili alle tue. In passato forse il lavoro dell’algoritmo veniva svolto dai quotidiani: andare in edicola e comprare il Manifesto, Repubblica, il Corriere o il Giornale significava scegliere la propria bolla. Vedere altri con il tuo stesso giornale in mano ti faceva capire che quelle persone condividevano il tuo micromondo di punti di vista, di curiosità intellettuali, di letture, film e così via. Così come avere lo stesso abbonamento del cinema o del teatro permetteva di riconoscersi.
In questo senso stare in una bolla è un costrutto che abbiamo sempre praticato: trovarsi in una comunità di interesse, di passioni, di abitudini, fa parte del modo naturale in cui le persone riducono la complessità, rendendo più confortevole la quotidianità, evitando il conflitto, condividendo un codice comune. La bolla ha un tasso di ‘implicito’ molto alto, dà per scontato una serie di cose, rendendo molto più semplice stare al suo interno.
In questo senso abbiamo sempre praticato le bolle, perché ci hanno reso più semplice la vita quotidiana e professionale. Pratichiamo questo tipo di esercizio in tutte le nostre relazioni.
Ciò che è cambiato da quando mi recavo in edicola è che adesso di edicola ne esiste una sola: ogni volta che apro il mio computer e cerco qualcosa online, l’algoritmo mi propone direttamente ciò che mi piace. Il mondo appare naturalmente simile a me stesso. La mia bolla è diventata, in qualche modo, tutto l’universo. Qualcuno ha detto che navigare su Internet doveva essere come nuotare nell’oceano; invece siamo finiti in una vasca da bagno.
Credo che oggi, rispetto anche solo a 50 anni fa, sia più facile cadere nell’illusione che le persone la pensino come te. E’ facile non accorgersi dell’articolazione del mondo nelle sue sfaccettature. Il mondo è costruito come uno specchio che restituisce una immagine, la tua immagine, i tuoi gusti, i tuoi interessi.
Ricordo un libro molto divertente scritto da Francesco Piccolo, “L’Italia spensierata”, in cui l’autore svolge l’esercizio di uscire dalla bolla: dopo essersi dichiarato un intellettuale di sinistra, si sperimenta in tre gesti tipici della massa (fare il pubblico di Domenica in, andare al cinema a Natale per vedere il cinepanettone e recarsi il 15 agosto nell’autogrill più affollato d’Italia). Nel libro racconta – in modo sarcastico – il significato di fare esperienze molto al di fuori della sua comfort zone. Ecco, il rischio è anche questo: credere di essere migliori. Piccolo non si è spogliato del suo sguardo (anzi, lo ha tenuto molto vigile), non ha provato davvero a stare nei panni degli altri ma ha vissuto fino in fondo, col corpo e la mente, la distanza percepita.
Ma come possiamo uscire dalla bolla quando le offerte culturali che ci vengono proposte (convegni, seminari, incontri pubblici, libri ecc.) si rivolgono solo a chi sta al suo interno? Ogni volta che viene organizzato un convegno sull’intercultura vi partecipano coloro che già credono nella sua importanza. Si tratta di azioni pensate appositamente per chi sta nella bolla; il pubblico applaudirà sempre, perché gli viene detto ciò che vuole sentirsi dire. Lo sforzo allora dovrebbe essere provare a parlare a coloro che non sono presenti, rendersi leggibili, intelleggibili, e dialogare per capire quale sia il linguaggio più adatto, quali i codici, quale il tipo di offerta renderebbe davvero accessibile una proposta culturale. Ma si tratta di mondi frequentati da persone nate e cresciute al loro interno, figli e figlie che non li tradiranno mai.
Il rischio di autoreferenzialità è tipico della bolla culturale, così come lo è nelle Accademie e nell’ambito della ricerca. Si parla spesso ai ricercatori e alle ricercatrici e non alle persone. La prima strategia per rompere l’autoreferenzialità è aumentare il grado di coinvolgimento delle persone di cui parli. E’ molto diverso estrarre dei dati, piuttosto che coinvolgere le persone rendendole in grado di intervistarsi le une con le altre, producendo insieme e discutendo questi dati. Si tratta di passare da una logica estrattiva, tradizionale, a una logica restitutiva e di coinvolgimento dove qualunque elemento di conoscenza viene condiviso con tutti coloro che fanno parte di una ricerca.
La seconda strategia è non produrre alcun report, oggetto poco accessibile a chi non possiede competenze tecniche e tendenzialmente noioso da leggere. E’ invece possibile prediligere la produzione di strumenti comprensibili (mostre fotografiche, podcast, installazioni ecc) che usino un linguaggio capace di tradurre il risultato raggiunto. Così, quando abbiamo dovuto lavorare sul tema dell’integrazione nel villaggio SNIA di Cesano Maderno – all’interno del quale si sono create situazioni di criticità interne ma anche di convivenza con il resto del territorio – abbiamo organizzato una sfilata: i vestiti ritrovati nella Fabbrica Snai in disuso sono stati indossati delle giovani immigrate del quartiere. 400 persone hanno partecipato a questo evento, si sono incontrate. Non è stata misurata la densità di immigrati e immigrate, ma ne è stata raccontata la complessità, esercitando un’azione che ha prodotto apertura e curiosità verso l’altro, molto più di qualunque report tecnico scientifico si possa mai fare.
Il mondo della ricerca deve dialogare con il coinvolgimento delle persone anche attraverso la produzione di output diversi, ma comprensibili e aperti a tutte e tutte. Per uscire dalle bolle dobbiamo essere in grado di togliere ciò che è implicito, esercitandoci nel rendere comprensivo ciò che diciamo; gli impliciti ci fanno sentire competenti, ma sono forme di chiusura, di elitarismo.
Le bolle sono anti-evolutive, non permettono di crescere perché non permettono il confronto con chi è diverso. Ti portano a credere che la tua sia l’unica modalità di stare al mondo. Dobbiamo provare a rompere queste bolle, soprattutto quelle dei ragazzi, dei più giovani, sfasciando l’algoritmo, proponendo qualcosa di diverso. Il viaggio, l’incontro con l’inaspettato, l’esposizione a un contatto inatteso sono detonatori potenti capaci di generare un presente alternativo. Proporre incontri, occasioni, esperienze incrina le auto-rappresentazioni e le stereotipie. Ricordarsi che fuori c’è un mondo – anche un po’ confuso e che forse ha la bellezza e il fascino del tuo – è fondamentale per la costruzione di un sapere vero e non semplificato.
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Foto Andrew Moca @Unsplash