fbpx

Preoccuparsi dei fini, e non dei mezzi


Mauro Magatti, laureato in Discipline Economiche e Sociali all’Università Bocconi di Milano e Ph.D. in Social Sciences a Canterbury, è professore ordinario all’Università Cattolica di Milano. Sociologo, economista ed editorialista del Corriere della Sera, membro della Commissione Centrale di Beneficienza della Fondazione Cariplo, del Comitato per la Solidarietà e lo sviluppo di Banca Prossima e del Comitato Permanente della Fondazione Ambrosianeum. Dal 2008 è direttore del Centro ARC (Anthropology of Religion and Cultural Change)


 

 
Professor Magatti, che caratteristiche ha l’economia delle “migliori intenzioni”?

Per tante ragioni che si sono stratificate nel tempo dal punto di vista culturale, l’economia moderna nasce concentrandosi sui mezzi, anziché sui fini. Il che peraltro ha consentito di fare grandi passi in avanti dal punto di vista della capacità produttiva.
Tuttavia, una parte più o meno minoritaria degli operatori economici si è domandata se non fosse significativo preoccuparsi anche di qualche fine. C’è sempre stata questa tensione. In modi e forme diverse, certo, e tutt’oggi persiste: radici personali, territoriali, culture religiose, movimentiste. O semplicemente il desiderio di altro, o meglio l’insoddisfazione verso attività puramente strumentali.
Questo non riguarda un settore in particolare, e quindi non solo il Terzo settore -ovvero il rapporto tra mezzi e fini non è risolto necessariamente dal non profit-.
È vero, nel profit le organizzazioni si adattano alla ricerca del profitto, ma da sempre ci sono imprese profit che considerano la necessità del profitto per conseguire, in realtà, altri risultati. D’altra parte il non profit, la cooperazione, almeno in linea di principio, nascono con maggiore enfasi sui fini, ma non è detto che il fine sia in grado di alimentare davvero l’organizzazione. E i fini rischiano di diventare pura retorica.
La dialettica rimane aperta. In epoca contemporanea riaffiora la questione con la stessa ambivalenza, ad esempio, anche rispetto al tema della sostenibilità (che è un fine ma per molti velocemente diventa un mezzo).
 


Come diventano prassi le “buone intenzioni”?

La questione dei fini è abbastanza complessa, anche perché in nome di qualche “bene” si sono fatti nella storia vari disastri.
Chi definisce il fine? Il fine non è un elemento statico, si trasforma. Spesso è associato a un modello gerarchico, per cui qualcuno definisce il fine e gli altri si adattano.
Il tema, non risolto, è proprio la vitalità del fine, la negoziazione, i sistemi di comando e di controllo, la possibilità di discutere questi fini e metterli in movimento. Nel tentativo costante di evitare elementi scivolosi.
Prendiamo a esempio le imprese benefit, che affiancano al profitto obiettivi di natura sociale. Vi si trovano elementi di significato, di senso. E questo può essere interessante, se interroga il modello organizzativo. Modelli più orizzontali hanno il vincolo, se vogliono stare nella realtà, di raggiungere obiettivi. Ecco, dunque, che si crea tensione organizzativa, e questa va gestita.


 Come si verifica che i “fini” non siano “traditi” nella prassi?

Che cos’è il fine? Se è un orizzonte di senso, una direzione, il monitoraggio va fatto attraverso la riflessività. Nell’ottica contemporanea, questo è un tipo di preposizione cui non siamo tanto abituati; perché per tante ragioni è difficile mettersi d’accordo, e la strada che si segue è tradurre il fine in obiettivo più specifico. Il pericolo immediato è, ancora una volta, che il fine diventi un mezzo.


 Come si aggiornano le “buone intenzioni” di un’organizzazione?

Nel nostro gruppo di lavoro (http://generativita.it) da anni parliamo di generatività, che ha una dinamica “a spirale”: il rinnovamento è prevalentemente generazionale, ovvero nel ricambio dei gruppi dirigenti. Questo è fondamentale, per evitare le derive per cui il fine ce l’ha in testa qualcuno e diventa sclerosi.
Difficile che il fine rimanga vitale e si trasformi, si adatti ai cambiamenti, a parità di classe dirigente, e senza la rigenerazione di chi interpreta il fine. Il fine ha bisogno di un’ermeneutica; dobbiamo quindi immaginarci che ogni fine abbia diverse ermeneutiche.
La retorica dei valori invece è molto rischiosa: si tirano in ballo i valori spesso per coprire sistemi di potere.
È chiaro: in una società come quella odierna, in cui facciamo fatica a metterci insieme, sentiamo la mancanza del fine, abbiamo bisogno di un obiettivo comune, di un’idea di bene comune. Ma attenzione, perché è facile che le buone intenzioni si traducono nel loro contrario.
La circolazione delle élite può aiutare a poter parlare di fini senza cadere nelle trappole che il fine si porta dietro.

Photo by Possessed Photography @Unsplash