Da un dialogo con
Elena Granata, professoressa Associata di Urbanistica presso il Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano e vicepresidente della Scuola di Economia Civile. È autrice, tra l’altro, di Il senso delle donne per le città edito da Einaudi nel 2023.
La simmetria tra uomini e donne nei tempi e negli spazi di lavoro è molto sbilanciata. La maggior parte delle donne, intanto, non ha la possibilità di progettare gli spazi di lavoro perché non ha un lavoro. Ma anche quando lavorano, le donne entrano raramente nel merito del cambiamento degli assetti, colte dalla sindrome dell’usurpatore che le accompagna quasi sempre, soprattutto nelle grandi aziende e nei grandi luoghi di lavoro, in cui ancora si sentono ospiti.
Le donne conoscono bene il malessere e il disagio, ma non sono state abituate a rielaborarli; tendono a adattarsi personalizzando la propria scrivania, i propri spazi di appropriazione, ma senza metterne in discussione l’assetto.
Alcuni grandi brand della moda, del design e della tecnologia hanno capito che la femminilizzazione degli spazi può essere uno strumento efficace per lavorare sull’identità dei dipendenti. Tuttavia, quando immagino uno spazio ripensato dalle donne, non penso a puff, divani o spazi da gioco. Quell’infantilizzazione dello spazio tende a considerare i dipendenti come bambini a cui concedere comfort ambientali, senza riconoscere la dignità del lavoro. Così come gli open space, inventati da architetti e imprese per riconfigurare spazi scomodi, cancellano le identità e minimizzano l’importanza delle abitudini nel lavoro, come la necessità di concentrarsi. Il ripensamento degli spazi di lavoro dovrebbe invece basarsi su nuovi parametri che riflettano le esigenze delle persone e la conoscenza delle dinamiche dei luoghi, non solo sull’estetica. Non si tratta di riorganizzare il setting ma di aprire una riflessione sulla conoscenza dei luoghi e delle dinamiche, sulla vita delle persone, sulle dimensioni immateriali. Non si tratta più di creare spazi belli progettati dall’architetto o dall’architetta, e nemmeno di allestire la classica sala riunioni in cui poi nessuno ha voglia di andare.
Nonostante tutte le sperimentazioni su smart working e lavoro da remoto stiamo tornando al modello del lavoro sotto controllo. Si preferiscono dipendenti che non lavorano stando in ufficio, piuttosto che lavoratori autonomi che svolgono da casa le loro mansioni. Il modello di controllo, che abbiamo ereditato e che ancora prevale, è disfunzionale poiché non riconosce che oggi le nostre vite sono scomposte e abbiamo bisogno di unire temporalità diverse. Dobbiamo poter lavorare da casa, magari in tempi che ci ricaviamo e che sono compatibili con la famiglia, ma anche viaggiare meno, perché spostarsi è sempre più complicato anche a fronte di un’emergenza riguardante la crisi climatica che rende difficile il movimento.
Un modello ibrido e flessibile potrebbe essere una soluzione auspicabile, ma riguarda la parte culturalmente più difficile da conquistare. Perché a dispetto di tutti i dati che ci dicono che la produttività delle persone non cala se sono responsabilizzate – e quindi possono lavorare nei contesti in cui sono più comode – quello a cui assistiamo negli ultimi mesi è invece un ritorno in sede. In questo modello di controllo, le donne sono quelle che perdono di più.
Le esigenze di concentrazione, isolamento e riflessione non vengono mai prese in considerazione. Molte persone sanno già che non lavoreranno in ufficio e cercano momenti di privacy prima di arrivare al lavoro, durante la pausa pranzo o nel fine settimana. Questo dimostra quanto assurda sia la configurazione attuale degli spazi di lavoro. Se il modello non è quello del controllo, ma della possibilità di alternare momenti di confronto con i colleghi e momenti di isolamento, allora bisogna ripensare gli spazi.
L’attenzione dovrebbe partire dai bisogni umani: esigenze del corpo, della concentrazione e del pensiero, della necessità di togliersi le scarpe e avere un momento per rigenerarsi, per poi tornare a lavorare. Il contributo delle donne, in tal senso, può essere fondamentale per umanizzare gli spazi di lavoro, ripartendo dai bisogni e dai desideri delle persone. Le ore trascorse davanti al computer hanno un impatto significativo sulla salute, ma nessuno ne parla. Organizzare la vita aziendale tenendo le persone ancorate al computer è una questione etica e di responsabilità. Anche se il lavoro è ben retribuito, la qualità relazionale e la dignità degli spazi restano carenti.
La tesi del mio libro – Il senso delle donne per la città – è che le donne si sono occupate della qualità dello spazio pubblico, delle relazioni, del verde e della sicurezza urbana, tutte questioni considerate non fondamentali, ma che in realtà sono essenziali. È necessario un ribaltamento dei valori. Se le persone che lavorano si ammalano più spesso a causa dello stile di vita, della sedentarietà o dell’alimentazione, questo dovrebbe essere parte integrante della riflessione sulle condizioni di lavoro. Dobbiamo partire da noi e dai nostri bisogni. Perché lo spazio non è neutro, interferisce col nostro cervello, è la prima cosa di cui abbiamo contezza.
Trovo tanta resistenza rispetto al miglioramento degli spazi, che va affrontata trasversalmente: scuole, ospedali, luoghi di cura, carceri. Il nostro paese si è arreso alla bruttezza e all’anonimato, nonostante il nostro DNA ci ricordi l’importanza della bellezza per la crescita, la guarigione e la reintegrazione sociale. Se un asilo, un ospedale o un carcere sono progettati con cura, l’impatto sulle persone è significativo. La cultura, però, tende ad essere regressiva, relegando la bellezza al tempo libero o al consumo. Al contrario, in paesi come la Francia, la Svezia e la Finlandia, la bellezza è considerata un bisogno primario e la si trova in ogni angolo. Dobbiamo ripartire dai luoghi dove le persone vivono, dagli asili, dalle scuole, dagli oratori. La bellezza deve tornare ad essere un diritto universale.
Il contributo delle donne può far emergere la consapevolezza che lo spazio non è neutro: influisce sul nostro cervello e sul nostro benessere. Ci siamo abituati a tollerare il brutto, ma la bellezza non è solo una questione di soldi. A volte basta poco per rendere un luogo dignitoso e migliorare la qualità della vita delle persone.
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Foto Sara Dorweiler @Unsplash