Se penso alle ultime tre volte in cui mi sono arrabbiata in un contesto lavorativo, noto una certa continuità nelle motivazioni che hanno scatenato la mia reazione: tempi di risposta troppo lenti e risposte inadeguate.
La mia rabbia, anche se espressa con un certo contegno, arriva sempre al mio interlocutore o alla mia interlocutrice con una carica di aggressività. E si trasforma inevitabilmente in un attacco personale, tirando fuori la parte peggiore di me.
A mente fredda, dopo qualche ora, rimugino su quanto accaduto. Anche quando sento di avere ragione, mi rendo conto che non ero autorizzata a sferrare quell’attacco. Perché, di fatto, ho colpito a livello personale qualcuno che, in quel momento, si trovava semplicemente davanti a me, senza essere necessariamente responsabile della mia frustrazione.
Eppure, mi sento intrappolata in un gioco a doppio taglio: so di non potermi arrabbiare con chi rappresenta un’organizzazione o un’istituzione, ma non ha potere decisionale rispetto ai meccanismi che generano la mia frustrazione. Allo stesso tempo, però, non ho modo né spazio per sfogare questa rabbia verso qualcuno o qualcosa di più astratto. Gli ingranaggi che l’hanno provocata sembrano privi di un volto, di un capo o di una coda. E così mi ritrovo bloccata, senza sapere a chi rivolgermi.
Cambio prospettiva: cosa accade quando sono io, in quanto rappresentante di un’organizzazione, a dover accogliere la rabbia di qualcun altro?
Nel tempo, ho sperimentato diversi modi di reagire, adattandoli ai contesti e alle ragioni – fondate o meno – della persona che avevo davanti. Una cosa è certa: quando non mi sento coinvolta, è molto più semplice gestire la rabbia. È un distacco quasi automatico, che lascia espandere la frustrazione senza toccarmi davvero e la rimanda interamente alla persona arrabbiata.
In contesti di maggior coinvolgimento, però, la situazione si complica. Mi è capitato di sentire forte l’insoddisfazione, di percepire chiaramente l’impossibilità di dare risposte adeguate o di risolvere problemi. In quei momenti mi sono sentita mortificata, empaticamente connessa alla persona che avevo davanti, ma priva degli strumenti necessari per agire. È un livello più complesso, questo, perché avrei voluto fare qualcosa, ma non mi era possibile.
E quindi, cosa è meglio? L’ideale sarebbe poter fornire alla rabbia una risposta. Prendersi il tempo per capire da dove proviene e disporre degli strumenti per accoglierla e gestirla, anche all’interno di un’organizzazione.
La rabbia esiste. Non possiamo eliminarla né ignorarla. È una presenza inevitabile, a volte scomoda, altre volte necessaria. Gestirla richiede strumenti che spesso non possediamo a livello personale e che nelle organizzazioni raramente vengono contemplati. La gestione della rabbia è un processo raffinato e delicato, frutto di un lungo lavoro che parte da noi stessi e da noi stesse. Richiede pazienza, consapevolezza e capacità di osservare ciò che accade senza esserne sopraffatti.
Ma poi ci accorgiamo che, dietro la rabbia, si nasconde qualcosa di importante: quel senso di ingiustizia e frustrazione che può servire, a noi e alle nostre organizzazioni. Perché la rabbia ci rende vigili, attenti/e, vivi/e. È una scintilla che permette di accenderci, di trasformare la tensione in azione, di trovare lo stimolo per fare.
Rimane, però, la sfida più grande: riuscire a mantenere quell’equilibrio sottilissimo che consente di trasformare la rabbia in uno strumento utile, senza che questa ci consumi. Un equilibrio fatto di ascolto, consapevolezza e capacità di trasformare il conflitto in un’opportunità di crescita. La rabbia, in fondo, può anche essere una forza.
La rabbia guarda sempre indietro, verso ciò che è già accaduto, e per questo non offre soluzioni. La vera trasformazione avviene quando scegliamo di guardare avanti, verso la possibilità di costruire qualcosa di meglio.
Martha Nussbaum, Anger and Forgiveness
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