Il filosofo Roberto Esposito, nel suo libro Communitas del 1998, si concentra sul termine latino munus, che vuol dire “obbligo”, ma vuol dire anche “dono”. Munus è, in latino, il dono necessario, moralmente dovuto e riconosciuto come tale dalla comunità, tanto che il termine designa anche le offerte ai defunti e il rituale delle esequie.
Nel suo molteplice significato (obbligo/dono), spiega Esposito, dobbiamo chiederci in che senso il dono sarebbe anche un dovere. Il dono non dovrebbe essere un gesto spontaneo?
In realtà il munus è un dono particolare: è quello fatto, non quello ricevuto, ed è caratterizzato da una “inesorabile cogenza”.
Ma munus è anche il nucleo costitutivo della parola “comunità”: il cuore della comunità è un dono obbligato, che sollecita disobbligazione. “La gratitudine che esige nuova donazione”, scrive Esposito, introducendo il tema della ri-conoscenza.
Prevalgono quindi reciprocità e mutualità: quel consegnare -l’uno all’altro tra i membri della comunità- un impegno.
Nella sbornia consumistica natalizia, eccoci dunque a riflettere sul dono non tanto -non solo- come gesto di gratuità, ma come patto di responsabilità che non passa da transazioni monetarie, misurazioni, produzioni, accordi. Un riconoscimento dell’altro: dono a chi credo se lo meriti, dal quale mi aspetto un ricambio. Non ci sono regole precise, niente è scritto, né quantificazioni: è il pensiero che conta.
Ma il pensiero talora vale più dei contratti, e l’assenza di reciprocità – tra le persone, nelle organizzazioni – innesca feedback negativi. È il tema della legittimità, è il tema dell’aspettativa.
Siamo così abituati all’automatismo che il dono debba essere materiale e convertibile in un valore monetizzabile che nelle organizzazioni talvolta riteniamo dono ciò che dono non è (perché parte già contrattualmente prevista) e sovente non riconosciamo ciò che è profondamente gratuito ed espressione di reciprocità, soprattutto se immateriale.
Perché? Alcune culture organizzative prevedono che tutto sia processato, definito, previsto, contabilizzato.
Nel momento in cui le relazioni ci portano a riconoscerci e a riconoscere anche la possibilità di esprimerci al di fuori di modelli, si apre quello spazio meraviglioso in cui ci concediamo la possibilità di stupire e di lasciarci stupire. Si tratta di uno spazio da recuperare proprio attraverso un movimento, quello che fa il dono nel passare dall’uno all’altro.
In quel movimento sta un ritmo differente rispetto a quello standard; e proprio in quel movimento all’altro (il collega, il capo, il dipendente ma anche il cliente, l’utente, il paziente…) è dato l’onere di riconoscere e la possibilità di esprimere la propria gratitudine in un luogo e in uno spazio che non necessariamente è il qui e ora ma nel “a buon rendere”; espressione desueta che ben esprime tutta la portata sovvertiva del dono, quando non è gesto formale e di galateo, previsto e prevedibile, e non è neppure atteso perché dovuto.
Spesso si usa il termine “dono” anche per indicare un talento innato, una capacità fuori dall’ordinario. E i talenti non vanno sprecati, semmai coltivati, curati, fatti crescere. E infine -doverosamente forse- condivisi. Anche donare è un talento, soprattutto nei luoghi di lavoro, e saper donare laddove la cultura del dono si è smarrita lo è ancor di più.
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