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I farmaci retrovirali e la progettazione partecipata (NL 03|2012)

Nel periodo in cui ho lavorato in Kenya la ricerca farmaceutica ha permesso grandi progressi nella cura dell’AIDS; l’introduzione dei farmaci antiretrovirali ha radicalmente trasformato la malattia allungando l’aspettativa di vita dei malati e contenendo le probabilità di trasmissione del virus. Quando sono stati introdotti i farmaci per la riduzione del rischio di trasmissione del virus mamma–bambino, una grossa organizzazione non governativa ha finanziato un progetto di distribuzione del farmaco in un centro medico privato del quartiere dove lavoravo a Nairobi. Nonostante le numerose e coloratissime pubblicità che ammonivano le donne sulla possibilità di ridurre la trasmissione del virus al bambino, dopo diversi mesi una grossa quantità di farmaco giaceva ancora nel centro medico; come mai non riuscivano a distribuirlo?

La risposta è molto semplice: il farmaco doveva essere assunto, perché potesse avere efficacia, a ridosso del parto; una percentuale minima di donne del quartiere si recava nel centro medico per partorire. Al contrario le donne preferivano partorire in casa e affidarsi alle attenzioni delle levatrici tradizionali. Solo quando è stato compreso e accettato questo fatto (superando alcuni pregiudizi culturali) è stato possibile trovare la chiave di volta idonea per la distribuzione del farmaco: il coinvolgimento delle levatrici, attraverso una formazione sul virus e la sua trasmissione.

La progettazione è un tema molto attuale ed è diventato un settore professionale importante, sviluppatosi in diversi ambiti lavorativi.

Per accedere a qualunque finanziamento è necessario scrivere un progetto e tutti sappiamo quanto è vitale per tante organizzazioni – in particolare in questo periodo – contare su dei finanziamenti esterni.

E così si sono moltiplicate le figure di progettisti, alcuni uffici si sono trasformati in progettifici dove professionisti della progettazione assicurano i finanziamenti alle organizzazioni.

Questo rischia di snaturare la progettazione stessa che – se è affidata esclusivamente a tecnici – corre il rischio di non saper raggiungere il cuore dei problemi o di non essere in grado di proporre delle soluzioni adeguate. Così, nonostante il prolificare di occasioni per progettare e la quantità di persone che si occupano di progettazione nei diversi settori (profit, non profit e pubbliche amministrazioni), la sensazione è che sia sempre più difficile trovare un buon progetto, che sappia rispondere ai bisogni, che sia sostenibile e rispettoso delle persone che ne sono direttamente o indirettamente coinvolte.

Progettare non è un esercizio facile, è un processo complesso perché chiama in causa diversi interessi e ha bisogno di differenti compromessi. Ci sono però, a mio parere, alcuni elementi che fanno la bontà di un progetto: per questo mi sembra importante soffermarmi sulla questione dell’etica del progettare.

Realizzare un progetto significa modificare la realtà di un contesto, creare qualcosa di nuovo rispetto a quanto c’è già. Ma a quali interessi risponde la progettazione?

Spesso un’organizzazione progetta in base alle sue necessità e i suoi interessi a prescindere dai bisogni e dalle risorse del territorio in cui si pone. È importante, invece, per rendere significativo un progetto, attivare un’azione di mediazione tra l’identità di un’organizzazione, che mette in gioco le sue competenze e che risponde a una mission, da una parte, e i bisogni e le risorse di un territorio e delle persone che lo vivono, dall’altra.

Una progettazione partecipata permette il coinvolgimento e il confronto tra gli stakeholder: se tutti i portatori di interesse hanno la possibilità di partecipare alla sua ideazione si riduce il rischio di fallimento, si innalza la possibilità di successo perché una versione condivisa dell’intervento sviluppa il senso di proprietà, di ownership da parte di tutti. Tornando al centro medico di Nairobi un coinvolgimento della popolazione locale in fase di ideazione del progetto avrebbe permesso una lettura diversa del contesto e, fermo restando il bisogno vero e reale che l’ONG ha individuato, avrebbe reso possibile l’individuazione della giusta strategia di realizzazione fin dall’inizio.

Un buon progetto deve saper prevedere il futuro: deve saper ipotizzare, attraverso una seria e onesta valutazione ex ante, quale sarà lo scenario nel quale il progetto si troverà dopo alcuni anni, quali saranno le condizioni di un territorio nel lungo periodo, quali cambiamenti possono influenzare – in positivo e in negativo – l’efficacia, lacontinuità e la sostenibilità del progetto, laddove per sostenibilità si intende non soltanto la capacità di un progetto di reggersi sulle sue gambe ma anche sostenibilità ambientale e sociale.

E poi c’è la mediazione con l’ente finanziatore: pochissime sono le realtà svincolate da fondi esterni e accettare un finanziamento vuole dire anche rispettare le priorità dell’ente finanziatore, così come compilare un budget vuol dire vincolare le percentuali delle varie voci di spese e, se necessario, spostare migliaia di euro da una linea all’altra per attenersi alle percentuali date dall’ente finanziatore e non rispettare, invece, le priorità del progetto.

Da questa visione di progettazione – nella quale Excursus si riconosce – deriva poi in modo naturale l’esigenza di dotarsi di un metodo per la progettazione che possa servire da supporto per una buona progettazione, che parta dai bisogni reali e dalle risorse di un contesto e che aiuti tutti gli stakeholder coinvolti a focalizzare e a fare propri gli elementi del progetto: la sua finalità – condivisa –, gli obiettivi e i risultati attesi, così come i possibili rischi e ostacoli alla sua realizzazione. Avere un metodo consente a diverse realtà che si trovano a progettare insieme, per scelta o per necessità (perché sempre più spesso i programmi di finanziamento supportano progetti se presentati in partnership), di condividere un linguaggio e, a partire da quello, anche una prospettiva di lavoro e una visione dei problemi e delle possibili soluzioni.

Il metodo GOPP (Goal Oriented Project Planning – si veda sezione appuntamenti della newsletter) è uno strumento che facilita una buona progettazione perché prevede la collaborazione dei diversi attori nelle varie fasi della progettazione e chiama a coprogettare anche i beneficiari del progetto. La sua struttura permette di non tralasciare alcun aspetto della progettazione, che diventa così un processo già orientato alla realizzazione e poi alla rendicontazione del progetto.

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