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Guardare dentro per andare fuori

Ivana Trettel è fondatrice, regista e drammaturga di Opera Liquida, compagnia teatrale della Casa di Reclusione Milano Opera, sezione media sicurezza.

Opera Liquida nasce nel 2009 e “attraverso la propria ricerca artistica favorisce l’inclusione sociale, promuove la legalità e previene i comportamenti a rischio nei giovani”.

La compagnia “utilizza il palcoscenico come luogo per riflettere e interrogarsi, dentro e fuori il carcere, su temi sociali di attualità portando in scena opere originali che nascono dai testi degli attori detenuti. L’esperienza del teatro unisce reclusi e società in uno spazio di incontro e riflessione che può favorire il cambiamento, il superamento di pregiudizi e luoghi comuni”.

In 12 anni la Compagnia, che produce spettacoli originali costruiti a partire dagli scritti dei detenuti, ha prodotto 8 spettacoli su temi di rilevanza sociale.

Ivana, voi lavorate sulla creatività in un contesto a dir poco “rigido”.

La dicotomia tra rigore e creatività è solo apparente. Il lavoro artistico possiede in sé grandi rigidità, e regole che sono l’impianto fondante del lavoro teatrale. Mi pare invece interessante l’idea di “esercitare” la regola non come “paletto”, come di solito la si intende, quanto come applicazione di prassi che ti permette di sviluppare processi creativi.

Il teatro è un artigianato sottile. Un po’ come le lacche cinesi: si passa una mano, questa sedimenta, se ne passa un’altra. Cerco dunque di portare nel lavoro in carcere una rilettura della regola: non la rigidità che impedisce la creazione, ma una prassi che ne diventa strumento.

Detto questo, noi facciamo teatro in carcere, istituzione totale per eccellenza, e quindi le regole sono molteplici, molto rigide, infinite.

La liquidità in questo senso è un adattamento non passivo.

Le regole sono fondamentali, ma in quanto strumenti ogni volta vanno minimamente forzate, per ottenere sviluppo. Il nostro è un lavoro di grande sviluppo. In carcere stai lavorando, ma porti prassi creative con persone creative. È un incontro tra due culture che in 12 anni ha dato grandi risultati. Questo è possibile perché spinge ogni volta più in là l’obiettivo, cercando costantemente un equilibrio.

L’evoluzione alla fine non è solo tua -di noi operatori, dei detenuti- ma anche della struttura che ti accoglie.

Che tipo di rapporto si instaura tra allievi e attori?

Si lavora moltissimo e in assenza di giudizio. Non mi preoccupa che siano detenuti. C’è una presa in carico “adulta” che un po’ va a cozzare con l’infantilizzazione del detenuto che invece è tipica. Il teatro porta alla ribalta la parte più adulta di sé, quella che si pone al contempo limiti e obiettivi.

Non è un paradosso: se diamo per assodato l’articolo 27 della Costituzione italiana, quello che dice che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”, ovvero al suo reinserimento nella società di cui ha violato le regole -e notare che non si parla necessariamente di carcere-, vuol dire che tutte queste persone sono degne di un’altra chance.

Se io dovessi concentrarmi sui reati probabilmente avrei anche grandi resistenze a fare il mio lavoro.
L’esercizio personale che faccio è dunque quello di pensare che potrebbe accadere a chiunque. Io faccio teatro: non sono lì per giudicare tantomeno per redimere. E i 12 anni ci dicono che il teatro è un grande strumento trasformativo (anche fuori dal carcere).

Osservo i cambiamenti e li considero effetti collaterali su persone adulte, come tanti altri strumenti. Magari per prendere distanza da un passato scellerato, da scelte di vita che hanno inficiato il futuro. Dall’altra parte, sono sempre molto colpita dal fatto che i “regolari”, ovvero le persone fuori dal carcere, gli “onesti”, di solito non hanno volto per chi compie i crimini.

Ma la nostra esperienza ha fatto incontrare questi due mondi, aumentando un livello di conoscenza altrimenti davvero minimo. In carcere non ci sono i mostri, e i detenuti possono incontrare un mondo che non frequentavano.

In termini più “freddi”, investire sui detenuti è un fatto puramente economico per la società. Buttare la chiave della cella costa!

Photo by Aerogondo on Canva

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