fbpx

La lezione degli argonauti

Francesco Remotti, professore emerito di Antropologia culturale presso l’Università di Torino, socio dell’Accademia delle Scienze di Torino e dell’Accademia dei Lincei, ha compiuto ricerche etnografiche ed etno-storiche in Africa equatoriale e riflessioni teoriche sull’identità e la somiglianza, oltre che sull’antropopoiesi. È autore di numerosi saggi e volumi.

Professor Remotti, qual è il ruolo del dono nelle società umane, dal punto di vista di un antropologo?

In antropologia il concetto di “dono” è emerso in maniera innovativa nel 1924, ovvero quando il francese Marcel Mauss pubblica il suo celebre Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche. È il punto di partenza nella disciplina, da cui tutte le analisi successive sul dono prendono avvio.

Mauss si era avvalso delle ricerche svolte sul campo da due noti antropologi: il lavoro del tedesco (poi americano) Franz Boas sulla cerimonia del potlatch presso alcune tribù di Nativi Americani della costa nordoccidentale del Pacifico degli Stati Uniti e del Canada (del 1897) e lo studio del polacco (poi britannico) Bronisław Malinowski sullo scambio rituale del kula presso le isole Trobriand, in Melanesia (pubblicato proprio cento anni fa, nel 1922, con il titolo Gli argonauti del Pacifico sud-occidentale).

Perché sono studi così importanti?

Guardiamo al primo caso, il potlatch. Si trattava di cerimonie durante le quali le persone più importanti delle tribù facevano sfoggio della loro generosità, come segno di potere e prestigio nella misura in cui regalavano, davano ad altri, propri beni molto significativi: canoe, coperte, lastre di rame etc. Questo fare sfoggio della propria capacità di privarsi di questi oggetti permetteva loro di guadagnare fama e prestigio anche in contesto intertribale.

Il che vuol dire: per essere importante dovevi saper donare. E attenzione, questo aveva anche un significato quasi ostile, per nulla “buonista”: c’era un’aria di rivalità, “io dono di più di quanto tu sia in grado di fare”. Era una sorta di crudele sfida alla generosità, a tal punto che (gli etnologi su questo punto rimanevano sconvolti) spesso si arrivava persino alla distruzione dei propri beni. A dimostrazione che di quelle cose si poteva fare a meno.

Qual era il senso di queste cerimonie?

In realtà, si trattava di un modo per impedire un eccessivo accumulo di beni da parte dei singoli e di certe casate. Siamo dunque di fronte a una società che si rende conto di correre questo rischio sociale: l’accumulazione come fattore di squilibrio. E non è un caso unico: spesso noi abbiamo a che fare con società che avvertono il pericolo dell’eccessiva cumulazione di beni, e che fanno in modo di impedire che ciò avvenga. Sono fenomeni che riscontriamo in tutte le parti del mondo.

Non sappiamo se siano state cerimonie o procedimenti istituzionali pensati appositamente a tavolino con questo scopo, o se invece fosse il risultato di un processo per così dire “evolutivo”. Sappiamo però qual era il loro scopo: non snaturare la società e il suo fondamento sostanzialmente “egualitario”.

Per esempio, dall’altra parte del mondo, in Nuova Guinea: lì esisteva la figura del Big Man, prevista nelle società tradizionali. Egli accumulava beni – maiali, mogli etc – e accumulare voleva dire diventare una persona importante: appunto un big man, un uomo forte, socialmente influente. Ma quel che conta di questa figura così significativa, figura avente un ruolo politico peraltro, è che una volta arrivata al culmine del proprio potere e influenza, affrontava necessariamente la fase del declino, l’inesorabile parabola discendente della sua carriera. Un declino programmatico, non evitabile, previsto dall’intera società. Come avviene il declino? Il Big Man è tenuto a donare i beni che ha via via accumulato, li deve redistribuire. Una redistribuzione attraverso i doni, non attraverso prestazioni.

È come se la società gli dicesse: il tuo potere viene riconosciuto e rispettato, ma il segno del potere è l’elargizione di doni, la distribuzione di beni. Una volta conclusa la parabola, il Big Man torna a essere come tutti gli altri, sopravanzato e umiliato da altri candidati alla figura di Big Man. In alcuni casi il Big Man veniva addirittura ucciso o esiliato.

Questa è la funzione del dono in una società dove vigono gerarchie

Il dono è la qualità precipua del capo: il suo dovere, la sua funzione. Il capo deve essere munifico. La differenza rispetto a noi – anche da noi i ricchi sono munifici, a volte – è che in quelle società i capi alla fine devono perdere tutto. Sono gerarchie che la società stessa provvede periodicamente ad annullare, per ripartire da zero.

Che cosa ci insegnano oggi gli “argonauti” di Malinowski?

Il rituale kula è uno scambio di oggetti che coinvolge molte isole, in un raggio molto esteso. Già questo è un dato significativo: per partecipare alla cerimonia gli abitanti delle isole dovevano affrontare lunghi viaggi in mare aperto, un’avventura assai pericolosa che poteva condurli anche in isole dove si parlavano lingue estranee e incomprensibili. Di che oggetti parliamo? Due oggetti poco più che artigianali, di scarso valore artistico: bracciali e collane, fatti di conchiglie. Le isole nel loro insieme compongono grosso modo un cerchio, e il rituale prevede che un oggetto venga scambiato in senso orario, l’altro in senso antiorario. Un gruppo di uomini prende la canoa, volge la prua a Nord, raggiunge un’isola e consegna in dono le collane. Ovviamente le consegna alle persone importanti dell’isola. Queste trattengono il dono per un po’ – circa un anno –, ne vanno orgogliosi, e poi le collane riprendono la strada del mare, verso un’altra isola. Di anno in anno la collana fa il giro e ritorna da dove era partita. I bracciali fanno lo stesso, ma in senso inverso.

Di continuo ci sono dunque persone che affrontano il mare aperto per portare oggetti che non hanno di per sé alcun valore economico. E nemmeno ornamentale tra l’altro: non vengono indossati, solo conservati per un periodo limitato di tempo.

Allora qual è il senso? Il valore – altissimo – sta nel processo che li porta da persona a persona, da isola a isola: essere stati donati in tutto il circolo, che continua incessante. Questi oggetti incorporano in sé il processo dello scambio e la storia, la memoria, delle loro vicissitudini.

Malinowski si interroga dunque su quanto poco universale sia l’idea di homo oeconomicus.

Oggi sappiamo tuttavia che lo scambio dei doni kula, in senso orario e antiorario, è in realtà il meccanismo che apriva la strada ad altri scambi, più commerciali. Le società usavano il termine kula per il dono degli oggetti cerimoniali, e il termine gimwali per lo scambio commerciale.

Vuol dire che una volta che abbiamo instaurato un rapporto di alleanza, portando collane in dono e ricevendo in cambio bracciali, è come se avessimo stabilito un canale di comunicazione tra noi, isola A, e gli altri, isola B, ed altri ancora, isola C: in questo canale transitano i beni di tipo commerciale. Lo scambio kula produce argini sociali che impediscono che il gimwali degeneri. Ecco lo scopo del kula: creare rapporti rituali che mantengano lo scambio commerciale entro argini di alleanza, di fiducia reciproca. Senza questi argini, il commercio, abbandonato a sé stesso, alla sua logica utilitaristica, genera la guerra.

Siamo di fronte a società che hanno capito che gli scambi commerciali puri e semplici – senza gli argini costruiti mediante il dono – sono mortalmente pericolosi. Al contrario, il dono contribuisce a creare una comunità non solo su scala locale, ma su scala internazionale (come era appunto il caso del kula).

Anche qui non c’è buonismo, semmai una profonda razionalità. Ci scambiamo oggetti sotto forma di doni e questo ci consente di commerciare in maniera ragionevolmente sicura: senza farci la guerra.

Il dono è dunque uno strumento di costruzione di fiducia reciproca. Ancora oggi?

Oggi, per noi, il dono ha a che fare quasi esclusivamente con la sfera personale, non collettiva: fiducia, alleanza, reciprocità, solidarietà sono possibili per lo più nei rapporti inter-personali. I nostri Stati-Nazione sono stati costruiti al contrario su una logica di conquista, spesso con intenti predatori. I rapporti tra gli Stati sono davvero contrassegnati dall’alternativa secca: commercio o guerra (come vediamo assai bene proprio in questi giorni ai confini dell’Europa orientale). La mentalità mercantile, capitalistica (una logica spesso predatoria), è tuttora dominante. E ciò nonostante le terribili esperienze belliche (ben due guerre mondiali, per tacere delle altre) tra gli Stati europei.

Non sappiamo quale sia stata l’effettiva genesi storica di un’invenzione politica (un modello di politica internazionale) come il kula. Di certo, alle sue origini, c’era una profonda consapevolezza. Quelle società sapevano benissimo cosa fosse la guerra. Oltre ai disastri, ai massacri, uno stato continuo di belligeranza avrebbe indotto le singole comunità locali a rinchiudersi nelle loro isole. Occorreva trovare il modo di uscire dall’isola in un clima di ragionevole sicurezza. Lo scambio kula consentiva ai partecipanti, in un’estesa zona di mare della Melanesia sud-occidentale, di avventurarsi in mare aperto alla ricerca dei propri alleati, cioè delle comunità locali con cui avvenivano gli scambi rituali e con essi gli scambi commerciali. Si potrebbe dire che il kula è l’esaltazione del dono portato a livello istituzionale e internazionale. Credo che sia difficile trovare oggi, tra le nostre società, un sistema di scambi tanto efficiente e lungimirante sul piano politico internazionale.

BanarTABS di Getty Images Signature

Lascia un commento