Rosario Iaccarino è Responsabile della Formazione della Fim Cisl nazionale (Federazione italiana metalmeccanici)
Sono stato eletto delegato sindacale della Fim Cisl nel 1983, poco dopo l’assunzione in un’azienda di termogestioni, con la qualifica di operaio fuochista. Il contesto culturale e sociale a quel tempo era profondamente diverso da quello odierno: viveva ancora l’eco delle grandi narrazioni ideologiche e anche il sindacato beneficiava di quel clima, benchè il “mestiere” della rappresentanza anche allora non fosse facile: la solidarietà organica era certamente un forte collante ideale-ideologico, ma ciò non risolveva la questione di tenere in equilibrio e integrare le soggettività emergenti con la dimensione collettiva.
Da ormai quasi 30 anni nella Fim mi occupo della formazione di dirigenti e delegati sindacali, i quali svolgono il loro impegno immersi in contesti sempre più complessi – influenzati dall’infosfera e da processi economici globali.
Ciò rende ancora più ardua la strutturazione di un linguaggio della rappresentanza capace di tenere insieme la pluralità delle soggettività e le sfide collettive. È un nodo, tuttavia, che non può essere eluso: occorre innanzitutto ascoltare, “sentire”, le aspettative più profonde, ultime, delle persone, senza fermarsi alla superfice, formandosi (pre)giudizi, che spesso non corrispondono alla realtà delle cose.
La cura della dimensione emotivo-affettiva è la nuova frontiera delle competenze del sindacalista e chiama in gioco anche l’offerta formativa, alla quale si impone di mutare lo sguardo sulle domande dei dirigenti sindacali, superando perciò un approccio che reputa centrale la dimensione tecnico-professionale. Il focus dell’azione sindacale è l’ascolto profondo delle persone, per cui rappresentare vuol dire accogliere almeno in parte, ma seriamente, le aspettative, i bisogni materiali e immateriali, i desideri individuali, all’interno però di un processo co-educativo e co-evolutivo, verso una riscoperta dell’intersoggettività e della relazione come condizione di riconoscimento reciproco e di vantaggio nel fronteggiamento delle questioni.
Il lavoro, come l’esperienza di Adriano Olivetti ci ha indicato, è intersoggettività attorno a un compito e al ben fatto, per cui ogni questione di protezione e promozione sociale, di emancipazione individuale e del contesto, passa attraverso una dimensione cooperativa tra le persone che lavorano. Solo facendo vivere le differenze in una dinamica cooperativistica e conflittuale – valorizzando i diversi punti di vista di chi vive nell’organizzazione – e perciò generativa di qualcosa che ancora non c’è, possiamo anche ripensare l’uguaglianza, che non può significare, come direbbe don Milani, fare “parti uguali tra disuguali”.
La mia convinzione, dopo anni di lavoro sul campo, è che vada assunta fino in fondo la complessità dei contesti di lavoro e organizzativi, e che occorra guardare non solo alla singola persona, ma alla persona in relazione, per progettare formazione che non esito a chiamare “educazione”.
Mi spiego: ritengo che aver individuato il singolo come il fine della formazione, abbia paradossalmente accresciuto la competizione tra le persone, mettendo sempre più in secondo piano la necessità della cooperazione. Eppure, malgrado noi siamo fisiologicamente esseri intersoggettivi e cooperativi, abbiamo spesso -anche attraverso la formazione- ostacolato il riconoscimento di questa intersoggettività.
In questo senso, il termine empowerment andrebbe eliminato dal vocabolario della formazione, perché genera un linguaggio verticale, che evoca la costruzione di un’armatura individuale che protegge dalla complessità e porta al “successo”: è un messaggio fuorviante, perché mette in sordina il riconoscimento della relazione con l’altro come costitutiva della soggettività individuale e come condizione per co-educarsi e co-evolvere nell’organizzazione. Utilizzando tale linguaggio, peraltro, si sterilizzano le finalità dell’educazione, volte a rendere ciascuno capace di accogliere la vulnerabilità come elemento costitutivo, e perciò in grado di assumere la consapevolezza dei propri limiti, che è la condizione per riconoscere l’altro come interlocutore decisivo per l’individuazione del sé.
L’educazione e l’educatore hanno questo compito primario: dis-armare le persone, aiutarle a mettersi a nudo, affinché scoprano di cosa effettivamente hanno bisogno per realizzare un’esistenza riuscita, e per esprimere se stesse, trovando quella forma soggettiva unica, autonoma, e al contempo dipendente e interdipendente dall’altro.
Su un piano più strettamente “politico”, inoltre, se non siamo capaci di curare e far vivere l’intersoggettività, tagliamo letteralmente il ramo sul quale poggia e si regge la rappresentanza collettiva, compresa quella sindacale.
La prospettiva “educativa”, dunque, supera e integra quella formativa, perché riscatta e porta in primo piano la dimensione dell’ascolto, della cura dell’altro e dell’intersoggettività, trasfigurando il “volto” dei soggetti della rappresentanza collettiva, e il linguaggio, che da persuasivo e competitivo, diventa affettivo, ossia meglio disposto al riconoscimento e arricchimento reciproco. Da un codice di comunicazione e incontro con l’altro prevalentemente maschile e paterno (paternalistico) si passa ad un’altra modalità, arricchita da altri codici, in primis quello femminile e materno, dell’accoglienza e della cura del legame.
La cura del legame è la “clinica” della rappresentanza. Senza tale consapevolezza che esige lo sviluppo delle “competenze” emotivo-affettive, avremmo un sindacalista “afasico”, ossia con tante parole a disposizione, specie quelle antiche del “mestiere”, ma a corto di un linguaggio adatto a rappresentare le persone in carne e ossa, qui e ora, correndo il rischio di essere sterile o ideologico.
Peraltro, guardando all’esperienza concreta e allo stato in cui versano molte organizzazioni, osserviamo spesso che alcuni luoghi di lavoro sono scarsamente accoglienti: generano malessere e disagi alle persone, a causa di relazioni malate, disturbate da narcisismo, autoritarismo, indifferenza, ecc., mentre, come ricorda Ugo Morelli, il benessere lavorativo è strettamente connesso all’espressione di sé e alla ricerca del bene vicendevole.
In questa chiave, mi chiedo e continuo a chiedere ai dirigenti sindacali, se la “bonifica” delle relazioni nelle organizzazioni e in particolare nei luoghi di lavoro sia materia sindacale, sia contenuto della rappresentanza. Io credo che lo sia: anzi, credo che sia la “materia prima” della rappresentanza; per il valore in sé che hanno le relazioni, in quanto ci costituiscono, ma anche per le conseguenze sulla rappresentanza collettiva che da esse derivano. Capita, peraltro, che l’ascolto delle persone a volte parta da un banale problema di lavoro e porti a rivelare disagi ben più profondi e seri.
Ricordo il racconto di un collega che ascoltando un lavoratore su un problema di busta paga, nel dialogo con lui intercettò una domanda di aiuto legata alla sua dipendenza dall’alcol; fu quella l’occasione per offrirgli un riferimento che lo aiutasse con il sostegno di un ente esterno al sindacato ad affrontare quel problema. Sarà sempre più così, perché come in quel caso se il sindacato è capace di ascoltare e accogliere la persona nella sua interezza, diventa un riferimento sociale ancora più importante, capace di rispondere sul suo terreno proprio, ma anche di orientare verso enti e istituzioni ad hoc persone e famiglie con disagi particolari.
Se ciò accade e accadrà sempre più frequentemente, anche a causa della scarsità di occasioni e luoghi di ascolto, per il sindacato non può non cambiare anche l’approccio educativo nella formazione dei suoi dirigenti, perché la presa in carico delle persone non è semplice e il carico emotivo cresce notevolmente. Intanto perché non si possono gestire tutti gli aspetti problematici delle persone, che spesso necessitano invece di interventi specifici, affidati a esperti, e perché l’ascolto delle persone, per capirne i bisogni e desideri più profondi richiede una capacità di “sentire” l’altro, una disposizione e un equilibrio emotivo-affettivi che non si acquisisce con delle tecniche, quanto con un “lavoro su sè stessi”, con un allenamento della parte migliore di sè.
Non è affatto semplice vivere in una condizione permanente di prossimità e di servizio alle persone, come oggi si configura il “mestiere” del sindacalista. Molti generosamente scelgono questo impegno, ma per far durare nel tempo la motivazione e il senso di questa scelta c’è bisogno di curare la propria dimensione interiore. A ciò ci si deve educare, superando l’idea che sia sufficiente una formazione come addestramento professionale, malgrado conti moltissimo la competenza tecnica, economica, contrattuale, normativa, ecc.. Ciascuno deve trovare la propria “forma” nel mettersi al servizio dell’altro, facendo maturare e tirando fuori maieuticamente le capacità, i talenti, le competenze che porta dentro di sé, scoprendo e rielaborando con gli altri il senso e i significati per renderli condivisi.
In questo approccio educativo c’è anche l’ingrediente principe per rigenerare le organizzazioni che, a differenza di una retorica diffusa, non sono ingranaggi di ruoli e compiti, ma senso e significati che ciascuno conferisce a quei compiti e alla soddisfazione che ne ricava realizzandoli con gli altri.
Nei percorsi educativi sindacali, se c’è un tema fondamentale è quello della motivazione: il domandarsi perché faccio certe cose, cosa mi mette in movimento verso questo o quell’altro obiettivo condiviso nel lavoro con gli altri; cosa mi emoziona e mi da soddisfazione nel mio lavoro al punto da farmi esprimere il meglio di me stesso.
Tra le cause che generano malessere individuale nelle organizzazioni, condizionandone anche il clima sociale, è la richiesta di assumere una forma decisa da altri, oppure la scarsa possibilità di poter confliggere, ossia offrire una prospettiva differente per migliorare le cose, oppure l’assenza di spazi di partecipazione, o ancora il mancato riconoscimento professionale in termini di percorsi di carriera e salariali. Senza il riconoscimento reciproco e la definizione comune, consensuale, di un compito primario dell’organizzazione, nel quale ciascuno esprime personalità, aspettative, affettività e talento, avremo contesti spersonalizzanti, frustranti, e perciò neanche efficienti ed efficaci.
Francesco Novara, lo psicologo animatore del Centro di Psicologia della Olivetti di Ivrea, si poneva costantemente questa domanda: “come guarire l’organizzazione?”. La sua risposta era centrata nella concezione della vita e dell’azione organizzativa intesa come una ricerca dei significati individuali, capaci di definire quella cornice emotiva e cognitiva individuale che, nella relazione con gli altri, in una dinamica co-educativa e co-evolutiva, generando un dominio di con-senso. Non è una questione di volontà, né di competenze tecniche, ma di prendere parte a una “danza emozionale”, avrebbe detto Humberto Maturana.
Da circa trent’anni svolgo questo lavoro educativo in Fim; ho molto ascoltato, e per questo a un certo punto ho fatto una scelta di campo: ho capito, raccogliendo emozioni, considerazioni, preoccupazioni, fallimenti, soddisfazioni di chi abita quotidianamente la complessità dei contesti di lavoro, che una formazione orientata solo sul terreno professionalizzante, e che propone “tecniche” per fronteggiare la complessità, non è capace di intercettare la domanda di cittadinanza piena nel lavoro, perché non attiva i codici affettivi, i canali di comunicazione più appropriati per parlare a nome dell’altro, di chi chiede di essere rappresentato.
In questa infinita e continua revisione dell’offerta educativa per i dirigenti sindacali, ho particolarmente curato due strade, affidando loro l’obiettivo di abitare trasversalmente i processi formativi, per nutrirli della forza del linguaggio simbolico-evocativo.
La prima strada che ho aperto è stato l’incontro con i luoghi e i soggetti sociali significativi, come la Scuola di Barbiana di don Milani, oppure i campi di lavoro sui terreni confiscati alla camorra con il consorzio NCO di Casal di Principe, oppure il confronto sulla cittadinanza con i Maestri di Strada di Napoli o con le cooperative nate nel Rione Sanità a Napoli per valorizzare i beni storico-artistici e il genius loci.
Queste e tante altre esperienze realizzate in contesti difficilissimi sono state capaci di generare un’inattesa e insperata trasformazione sociale ed economica. A conferma che il cambiamento è possibile ascoltando i contesti, valorizzando i talenti e alimentando una domanda collettiva di beni comuni, facendo vivere la ragione poetica e quell’utopia che vuol dire far accadere ciò che oggi non c’è ancora. Per chi svolge un impegno di rappresentanza sociale e collettiva la questione dell’utopia così intesa è ancora una bussola formidabile.
La seconda strada che ho aperto è stata quella dell’arte, soprattutto portando il teatro, inteso come “il mestiere dell’emozione”, nel cuore della didattica.
In chiave educativa, il teatro può rappresentare una straordinaria occasione, attraverso la finzione scenica e l’incontro con i testi, per creare uno spazio scenico interiore, attraverso l’improvvisazione, l’immaginazione, l’interpretazione, l’immedesimazione nell’altro da sé.
Il teatro è capace di allargare lo spazio interiore delle persone, di colmare il vuoto emotivo, di arricchire il linguaggio, di liberare la creatività, di alimentare il desiderio di cambiamento del già dato, di aiutare la persona a decentrarsi da sé stessa e a muovere verso l’altro, a mettersi nei panni dell’altro, riconsegnando, in un movimento di comprensione di sé e di riconoscimento dell’altro, la scena al corpo e sottraendola alla parola, che frequentemente cela più che svelare chi siamo e crea paradossalmente barriere e non comunicazione.
Il teatro è un cardine dell’educazione sentimentale, perchè trasferisce nella pratica educativa ciò che il drammaturgo francese Antonin Artaud prescriveva all’attore, e cioè l’atletica affettiva. Un esercizio che allude al lavoro su sé stessi, ad un allenamento delle emozioni e della sensibilità, per trovarsi pronti all’incontro con l’altro.
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