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Piantare parole future

Una riflessione in quattro movimenti tra demografia, desiderio e trasformazione organizzativa

Questa riflessione prende le mosse da quanto ascoltiamo (o ci piacerebbe ascoltare) nelle organizzazioni che abitiamo e che incrociamo attraverso la consulenza. E un pezzo di tale riflessione è stato già condiviso nella newsletter Desiderare ancora. Una questione demografica. Nel frattempo, individualmente e in équipe, il pensiero è continuato a fluire: un fiume ancora carsico, che desideriamo fortemente scoprire e lo facciamo lasciandoci accompagnare da alcune domande generative, attraverso le quali cogliere la consapevolezza demografica di alcune organizzazioni.

1. Quali parole descrivono il nostro presente demografico?
2. Quali desideri si sono affievoliti? Quali possiamo riaccendere?
3. Quali tensioni ci attraversano?
4. Quali parole vogliamo piantare oggi per domani?

>> Un invito ai nostri lettori e alle nostre lettrici: la tua mappa generazionale

1. Quali parole descrivono il nostro presente demografico?

Le organizzazioni che accompagniamo, spesso, abitano un tempo intermedio: stanno nel presente con fatica, mentre il futuro è nebuloso e il passato viene idealizzato. Lo sguardo si rivolge con facilità a ciò che è stato: il fondatore, la fondatrice, i primi passi, l’epopea dei pionieri. È più difficile nominare il presente per quello che è: attraversato da una glaciazione demografica, come l’ha definita Alessandro Rosina. Un fenomeno profondo (dove già lessicalmente viene definita un’era, una condizione piuttosto che un qualcosa di passeggero), che però resta ai margini del discorso organizzativo.

La generazione più rappresentata, in parecchie fra le organizzazioni che affianchiamo, è quella dei cinquantenni. L’invecchiamento – delle persone e, con esse, dell’organizzazione – è però raramente oggetto di riflessione.

Manca la parola “ricambio generazionale”. Manca la parola “dopo”. Manca, soprattutto, la domanda su chi verrà e come potremo fargli spazio? Manca dunque anche la parola “futuro” che non è più neutra: è una domanda aperta, carica di un timore che si riverbera sulle capacità di visione e di operatività. E questa consapevolezza cambia il modo in cui possiamo costruire immaginari organizzativi e sociali, sia in quelle organizzazioni che già avvertono il contraccolpo del calo demografico e vivono la fatica del ricambio sia in quelle in cui per ora è “solo” venuta meno la visione intergenerazionale (e con essa la capacità di trasmettere, generare, evolvere). 

Quando il futuro si affaccia, porta con sé più spesso l’angoscia che la progettualità e la speranza (come ben argomentato da Byung-Chun Hal nell’ultimo saggio pubblicato in Italia: Contro la società dell’angoscia).

Nel nostro ruolo di consulenti, possiamo aiutare a nominare: dare parole a ciò che viene evitato, fare emergere lo scarto tra ciò che siamo oggi e ciò che potremmo diventare. Nominare significa anche permettere all’organizzazione di riconoscere che avrà un futuro senza di noi, e che può – e deve – cominciare a immaginarlo.

2. Quali desideri si sono affievoliti? Quali possiamo riaccendere?

Il calo demografico, pur non sempre riconosciuto come tale, è già percepito come una difficoltà nel trovare persone giovani, motivate, interessate. Ma la risposta prevalente è spesso difensiva: si attribuisce la responsabilità alla “disponibilità” dei giovani, più che interrogarsi su un contesto demografico e culturale che è cambiato radicalmente.

Questa chiusura rende più difficile anche desiderare. Quando si smette di immaginare il futuro, anche il desiderio si ritira. E spesso sono le organizzazioni stesse ad affievolirlo laddove sono abitate da persone per le quali il lavoro non è più riconosciuto come luogo di senso, dove manca la possibilità di lasciare un’impronta.  

Eppure, desiderare è un atto politico e organizzativo. È una scelta. Significa chiedersi: che cosa vogliamo trasmettere? Quale visione vogliamo lasciare in eredità?

Riaccendere il desiderio richiede una nuova ecologia delle relazioni. Serve una compresenza reale tra generazioni: serve che i giovani siano dentro le organizzazioni, non solo per sostituire, ma per contaminare, innovare, disinnescare automatismi. Perché il desiderio ha bisogno di sguardi plurali per riaccendersi.

Un’organizzazione che non ospita più la biodiversità delle età rischia di inaridirsi. È come un bosco dove le radici nuove non riescono a emergere. Ma in ogni bosco, sotto la superficie, c’è vita invisibile che cresce. C’è nutrimento che si muove. C’è un intreccio di età che permette alla quercia più antica di continuare a vivere grazie a ciò che di giovane germoglia nel sottosuolo e alle piccole e giovani querce di crescere intrecciando le proprie radici con quelle delle antiche e beneficiando dell’ombra che queste stesse fanno. È da lì che può rinascere il desiderio: da una presenza generazionale che non è numerica ma culturale.

E qui si apre una questione fondamentale: la presenza dei giovani non può essere ridotta a una questione di ricambio. Se non si riconosce loro uno spazio reale di potere, se non si dà modo di incidere sulla cultura e sulle scelte organizzative, la loro presenza resta una formalità. Delegare il desiderio ai giovani senza costruire condizioni strutturali perché possa emergere significa condannarli all’invisibilità. Non basta “invitarli al tavolo”: è necessario che possano anche parlare e decidere. La rappresentanza nella governance – luogo di progettazione dinamica e non di rappresentazione statica del potere dei più anziani – è il primo passo per fare spazio a nuove visioni. Solo così il loro contributo può essere generativo, anche nella forma di un mentoring reciproco, dove l’esperienza incontra l’innovazione e l’ascolto diventa cambiamento.

Richard Sennett in L’uomo flessibile ci avverte che spesso le persone non sanno cosa desiderano davvero: rispondono con ciò che conoscono, non con ciò che desiderano. Il desiderio, allora, non si rileva ma si costruisce, si fa emergere nel tempo, nei contesti, nei linguaggi.

Per i giovani – e anche per le organizzazioni – servono spazi che non chiedano risposte immediate, ma che sappiano accompagnare il processo stesso del desiderare.

3. Quali tensioni ci attraversano?

Le tensioni, oggi, non sono solo conflitti interpersonali: sono fratture temporali, frizioni tra epoche che si sovrappongono. In molte organizzazioni le giovani generazioni non ci sono. E dove mancano, viene meno anche lo scontro, il confronto, la possibilità del conflitto generativo di cui parla Paulo Freire. Ma l’assenza di conflitto non è pace: è immobilità.

Quando le età non si incontrano, quando manca un vero spazio di riconoscimento della diversità generazionale, l’organizzazione si cristallizza. I “tempi della vita” restano fuori dal perimetro delle decisioni, come se si potesse davvero separare il lavoro dall’esistenza. Ma le esperienze, le attese, le competenze delle diverse età abitano ogni giorno le nostre organizzazioni. E vanno accolte, non solo gestite.

Il modo in cui pensiamo il tempo, il ritmo, la soglia, dice molto di come immaginiamo la nostra organizzazione. L’incontro tra generazioni non è solo un’opportunità: è una necessità per non smettere di imparare; è una priorità educativa e organizzativa.

Ivana Pais, membro del CNEL e sociologa, parla di mismatch tra domanda e offerta come vera emergenza strutturale: il problema non è la disoccupazione, ma il disallineamento tra ciò che le organizzazioni cercano e ciò che i lavoratori possono o vogliono offrire. Questo mismatch riflette le tensioni profonde, le “fratture temporali”: una divergenza non solo anagrafica ma simbolica, che attraversa le organizzazioni e i mercati.

4. Quali parole vogliamo piantare oggi per domani?

C’è una bellezza silenziosa nel bosco che cresce sottoterra, invisibile ma vivo. È questa immagine, evocata da Chandra Livia Candiani, che sento più vicina al lavoro che possiamo fare: coltivare parole nuove, o dimenticate, che possano nutrire anche gli alberi più vecchi.

In molte organizzazioni si fa ancora fatica a immaginare un futuro dove noi non ci saremo. Eppure, è da lì che può nascere la responsabilità condivisa. Le domande da porsi non riguardano solo chi ci sarà tra dieci anni ma anche come vogliamo arrivarci: con quale missione, con quale governance, con quali parole.

Piantare oggi le parole giuste – ricambio generazionale, co-responsabilità, desiderio, futuro – è un atto educativo, non predittivo. Non si tratta di statistiche ma di cultura. È un passaggio dalla paura alla responsabilità, dall’ansia del vuoto alla fiducia nella continuità. In questo senso, portare i giovani nei luoghi decisionali non è solo giusto: è necessario per vedere quello che ancora non riusciamo a vedere.

Questo passaggio – differente da organizzazione a organizzazione – avviene nel momento in cui pensiamo alla consapevolezza demografica (dopo averla acquisita) come sguardo multilivello, rivolto: verso l’interno delle organizzazioni (autoriflessivo), verso il mercato e verso il Paese.

  • Verso l’interno, riguarda la composizione stessa dell’organizzazione: chi ci lavora oggi, chi ci lavorerà tra cinque o dieci anni, quali visioni portano le persone che appartengono a generazioni distinte. In altre parole, disegnare la mappa generazionale della propria organizzazione.
  • Verso l’esterno, riguarda i mercati, i destinatari dei nostri servizi, le comunità con cui dialoghiamo. I bisogni cambiano (culturalmente e quantitativamente), le età cambiano, e con esse devono cambiare prodotti/servizi, progetti, linguaggi.
  • E infine, a livello più ampio, serve uno sguardo sul Paese: sulle traiettorie che stanno segnando la nostra società, sul calo demografico e sul calo del desiderio. Non sono solo numeri: sono contesti trasformativi.

Questa consapevolezza non può essere ridotta a una previsione statistica. È un atto educativo. È un modo di stare nel tempo: con radici nel presente e antenne nel futuro. E comporta un’assunzione di responsabilità. Ci chiede di condividere la governance, di aprire spazi reali ai giovani, di accogliere il loro sguardo non per gentile concessione, ma perché ci serve per vedere ciò che oggi ci sfugge.

Piantare oggi le parole giuste – desiderio, futuro, cura, responsabilità – significa dare forma a un’altra idea di organizzazione. Una che non teme la trasformazione, ma la coltiva.

La glaciazione demografica non è un destino, ma un contesto. Come ogni contesto, può essere abitato. Ma solo se lo riconosciamo, lo nominiamo e lo attraversiamo con parole nuove. Portare questo tema nelle organizzazioni non significa prevedere il futuro (perché il futuro è già adesso), ma iniziare a costruirlo, parola dopo parola, gesto dopo gesto.

Un invito ai nostri lettori: la tua mappa generazionale

Dopo aver attraversato insieme parole, desideri, tensioni e immagini di futuro, ti proponiamo di fermarti un momento. Non solo per pensare, ma per disegnare: per dare forma visibile al tempo generazionale che abiti nella tua organizzazione.

Ti invitiamo a osservare la tua organizzazione e a raccontarcela attraverso una mappa.
Non una gerarchia o un organigramma, ma un ecosistema: un intreccio vivo di generazioni che convivono, imparano e crescono insieme.

Non importa che la tua mappa sia perfetta o artistica: basta che racconti il vostro paesaggio generazionale così com’è, con autenticità. Se può esserti utile per tracciarla, ti proponiamo alcune domande guida:

DOMANDA GENERATRICESPUNTIIMMAGINI e/o PAROLE
da riportare sulla mappa
Quali generazioni sono presenti nella mia organizzazione?età, storie, provenienze…semi, alberi, radici, sentieri…
Quali età o generazioni mancano o sono sottorappresentate?vuoti, spazi inesploratizone d’ombra, silenzi…
Dove si concentra oggi l’energia del desiderio?in quali funzioni, in quali gruppigermogli, fiori, correnti…
Come immaginiamo il futuro della nostra organizzazione?fra 5 anni, rispetto alle generazioni presenti ogginuovi semi, ponti, orizzonti…
Quale parola vorremmo piantare oggi?singola parola o breve frase
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Raccoglieremo le vostre mappe per proseguire, nella newsletter di maggio, il nostro viaggio dentro i tempi generazionali delle organizzazioni.

Vuoi scoprire chi siamo e come facciamo le cose? Qui trovi la Circolarità della consulenza, nella nostra narrazione.
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Le immagini che accompagnano questo articolo sono fotografie di opere esposte al The Cleveland Museum of Art @Unsplash