Ricordo bene quando non trovando più parole e rimasta sola – una volta che il mio socio ha chiuso alle sue spalle la porta del nostro ufficio – finalmente ho potuto sfogare la rabbia che avevo in corpo; fra le mani la mia tazza con la tisana non ancora bevuta… l’ho scagliata contro la parete. Non avevo mai fatto nulla del genere. Sono passati 15 anni e ricordo la data precisa e l’ora. È stato liberatorio; liberatorio anche raccogliere i cocci e ripulire la parete.
In genere sfogo la rabbia camminando velocemente per la città e macinando chilometri; oppure, più lentamente, su e giù per i monti. Ma quella volta è stato diverso.
Non penso che esista una rabbia buona o una rabbia cattiva ma piuttosto vedo e provo una rabbia funzionale e una rabbia disfunzionale.
La rabbia è un sentimento che accompagna chi vuole che un’altra persona cambi; penso agli ambiti di vita quotidiana: la famiglia, il gruppo di lavoro, quello degli amici e delle amiche. La rabbia monta nel momento in cui c’è un disallineamento e penso che la persona o le persone con cui non c’è più allineamento debbano cambiare. Può essere anche un sentimento autoriflessivo: provo rabbia verso di me; devo cambiare: ne ho la consapevolezza e tergiverso.
È un sentimento funzionale nel momento in cui è transitorio ed esistono margini di cambiamento, nasce nell’oggi e non si prolunga nel domani; è disfunzionale quando non viene agito un cambiamento o quando non ci si rassegna al fatto che non ci siano effettivamente margini di cambiamento. È disfunzionale quando viene dal passato o addirittura ci precede.
La graphic novel Mor. Storia per le mie madri di Sara Garagnani ben descrive questo processo di rabbia che attraversa le generazioni, che si tramanda insieme al latte materno. Una rabbia arcaica che può essere interrotta solo nel momento in cui viene riconosciuta come intergenerazionale e disfunzionale.
Anche nelle organizzazioni talvolta la rabbia si presenta così: viene da una generazione precedente; quella dei padri fondatori, delle madri fondatrici; è un fiume carsico; pare soffocata, si camuffa sotto mentite spoglie (quelle della tristezza); una rabbia che a lungo andare genera situazioni di impasse organizzativo, di controlli persecutori e di malessere, per chi la nutre ma anche per chi la subisce. Poi quando affiora lo fa con violenza, in modo distruttivo.
Mi capita di entrare in organizzazioni dove, fin dai primi momenti, si avverte una grande tristezza. Sono triste affermano compostamente alcune persone. Io avverto la loro tristezza e loro la esplicitano. Procedendo a ritroso per coglierne l’origine, ci si imbatte in una rabbia che non può essere espressa come tale (così viene insegnato fin dalla più tenera età: trattieni la rabbia, dissimula) e che con fatica viene riconosciuta. Si tratta di un risentimento che intacca le relazioni, affatica la comunicazione, imbriglia la creatività e il fluire di energie evolutive. Sono quelle situazioni in cui si vive nel passato: manca una strategia di intervento rispetto al presente e il futuro è inesistente. Sopravvivere è il mantra quotidiano.
Eppure, in queste organizzazioni tristi spesso la scintilla primordiale è stata proprio la rabbia; rabbia scaturita dall’osservare dei vuoti, dei malfunzionamenti, delle disuguaglianze e che ha portato alla nascita stessa dell’organizzazione. Una rabbia condivisa e generativa, che chiamerei indignazione etica, perché spinge al cambiamento, al movimento.
In più occasioni l’ho sentita questa rabbia generativa: nei movimenti sociali che ho inseguito in giro per il mondo (a Genova, a Porto Alegre, a Nairobi…), nei progetti che hanno colmato e colmano i gap istituzionali, nelle start up che generano un impatto economico, sociale e culturale tangibile.
È una rabbia funzionale, non distruttiva; che smuove l’inimmaginabile, quella che ci fa avvertire che dietro i rigurgiti di un passato che pensavamo di aver seppellito, ci sono letture differenti, alternative. A volte non riconosciamo il cambiamento nell’immediato, abbiamo bisogno di allargare, anche storicamente, la visione per riconoscere cosa quel sentimento ci ha permesso di vedere e di agire: di inventare, di modificare, di accantonare per intraprendere altro.
Quegli scarti, quei cambi di rotta, ci mostrano come sia importante curarsi della rabbia (e quindi dell’indifferenza che rischia di intristirci e intristire).
E il primo passo parte dal riconoscere il cambiamento, a tratti impercettibile ma reale, così come ci insegna Wislawa Szymborska:
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Olia ozha @Unsplash