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Responsabilità diffusa contro le mafie

Pierpaolo Romani è Coordinatore nazionale di Avviso Pubblico, l’associazione nata nel 1996 per riunire gli Amministratori pubblici che si impegnano a prevenire e a contrastare mafie e corruzione, promuovendo la cultura della trasparenza e della legalità democratica (www.avvisopubblico.it)

Ci si orienta a cogliere segnali a patto che siano chiare le definizioni, e che ci si ponga le domande giuste.

Nell’ambito di mia competenza, rilevare segni della presenza della criminalità organizzata su un territorio prevede necessariamente che ci si intenda su una cosa: che cos’è la mafia? Non è una domanda banale. Per tanti cittadini la mafia è quell’organizzazione criminale che esiste quando commette crimini efferati. È vero, è questo, ma non è solo questo. La mafia è anche impresa, è banca, è politica. Certamente utilizza la violenza (minacciata e praticata) come tratto costitutivo, ma la violenza arriva quando non sono sufficienti altri strumenti già in essere, come la corruzione.

Al contrario, se la corruzione “funziona”, se la domanda incontra l’offerta illegale o criminale, si pone meno attenzione a quel che accade.

Un omicidio suscita allarme sociale e l’attenzione degli apparati repressivi e dei mass media; una tangente generalmente no, a meno che non coinvolta personaggi particolarmente conosciuti e sia di un certo ammontare.

Certo, posso guardare se c’è la mafia confrontando le statistiche circa il numero di omicidi, di denunce, condanne, arresti registrati su un territorio. Ma oggi, io credo ci si debba abituare – in questo come in altri ambiti – a osservare tipologie di segnali differenti.

Faccio alcuni esempi, che forse aiutano a capire meglio come riconoscere la presenza della “mafia imprenditrice” su un territorio. Il numero di operazioni finanziarie sospette segnalate dall’Unità di informazione finanziaria della Banca d’Italia. Oppure, il numero delle interdittive antimafia emesse dalle prefetture, laddove l’interdittiva è una misura amministrativa di prevenzione, che mira a escludere dal mercato, soprattutto degli appalti pubblici, imprese fortemente sospettate di avere all’interno persone legate alle mafie. O ancora: il numero di beni e aziende confiscate sul territorio: sono investimenti concreti delle mafie. Oltre ai dati quantitativi, credo sia necessario soffermarsi anche su dati qualitativi. Per esempio: in quali settori investono le mafie? Con quale forma societaria? Chi siede nei consigli di amministrazione?

Altri segnali a cui guardare sono quelli che vengono chiamati “reati spia”. Tra questi, ad esempio il numero e la tipologia di incendi di mezzi di trasporto pesante e di capannoni in disuso, strutture che spesso vengono utilizzate per stoccare e smaltire illecitamente i rifiuti tossici. Oppure la quantità e la tipologia di sequestri di sostanze stupefacenti (oltre alle denunce e gli arresti). Infine, il numero di Comuni sciolti per mafia. Dal 1991 ad oggi sono più di 270, un numero che riflette in modo preoccupante il persistere del rapporto mafia-politica, soprattutto a livello locale, e in generale la saldatura forte tra criminalità economica e criminalità mafiosa.

L’incapacità di cogliere questi segnali conferma la visione di un pezzo della società italiana per la quale la mafia, se non spara, se può essere utile per fare affari e non ci danneggia direttamente, è un soggetto con cui si può coabitare.

Non tutti hanno accesso alle informazioni, o sono in grado di leggerle. Questo è un fatto. La non conoscenza è un tema che dobbiamo prendere sul serio perché è anche questa una parte della fonte della negazione e della sottovalutazione del fenomeno. Le inchieste hanno dimostrato che è possibile che il piccolo imprenditore non capisca con chi ha a che fare e venga inserito in certi circuiti da alcuni suoi colleghi che da vittime sono diventate carnefici o da alcuni liberi professionisti o esponenti del mondo finanziario. Per colmare questo divario occorre investire nella formazione, scolastica e professionale. Anche all’università: lo studio dei sistemi mafiosi e corruttivi dovrebbe diventare una materia obbligatoria. Perché può non è così raro, in tutta Italia, imbattersi nelle organizzazioni mafiose, e spesso ce ne si rende conto solo in un secondo momento.

Certamente poi ci sono i processi di “negazione” del fenomeno, pur di fronte a segnali espliciti.
Negare ha diverse matrici. Nel Nord Italia si pensa spesso che parlare di certi temi sia fare un danno all’immagine del territorio, e quindi all’economia. È un pensiero di retroguardia: la mafia è da tempo nei sistemi economici locali. Occorre un approccio diverso, per contrastare i meccanismi di negazione, che spesso sono anche in buona fede se si sanno cogliere certe sensibilità. Puntare sulla retorica della difesa dell’economia sana, ad esempio.
Poi certo c’è chi vede e non dice nulla. Solo successivamente scopriamo la connivenza e la complicità. Il fenomeno si spiega perché la mafia si propone come problem solver, e mira al consenso sociale. La mafia offre capitali, voti, servizi. Il rischio è che da una convenienza economica e politica -con quei voti si sono vinte le elezioni, con quel capitale si è salvata l’azienda- si passi al “perché no, finché non sono violenti” generalizzato. È un segnale di una sottovalutazione grave, e un grandissimo rischio, perché la storia ci insegna che quando le mafie si agganciano a una impresa e ad un territorio non li mollano più. Il mafioso vuole ricchezza, potere e controllo del territorio. Quello delle mafie è simile ad un regime dittatoriale, non a una democrazia; un monopolio, non libera concorrenza.

Infine: come si diventa bravi a cogliere i segnali? Io credo occorra sviluppare una cultura della responsabilità e della conoscenza diffusa unitamente alla capacità di sapere ascoltare diversi soggetti da quelli tradizionalmente considerati. Ad esempio: un educatore o un agente di polizia locale, che stanno molto tempo sul territorio accanto ai giovani e ai cittadini, possono aiutarci a cogliere molti più segnali di un magistrato o di un sociologo, e lo possono fare in anticipo.

Poi, ancora, formazione, non solo teorica, anche pratica. Serve uno spirito concretamente collaborativo con le istituzioni, e portare esempi di persone che hanno dimostrato che i segnali si possono cogliere e si può intervenire per tempo.

Photo by Oscar Keys @ Pexels

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