Giovanni Castiglioni lavora presso il Servizio Stage & Placement Service dell’Università Cattolica di Milano. Accompagna studenti e laureati nella scelta dello stage e del lavoro, dialogando quotidianamente con le aziende che ricercano talenti e supportandole nelle attività di employer branding.
Esistono diversi tipi di competenze. La formazione universitaria fornisce una base di conoscenze che gli studenti acquisiscono e che possiamo dare per assodate. Resta però aperto il tema delle Soft skills, le competenze trasversali, sulle quali si lavora meno. In questo senso esiste un mistmach che possiamo definire “formativo”: ci si concentra sulle conoscenze, tralasciando una serie di aspetti propri dell’individuo. Mi riferisco anche alla gestione di situazioni ‘semplici’, quali l’organizzazione del lavoro o il relazionarsi con gli altri.
Un altro aspetto che rilevo – e di cui si sente spesso parlare – è la mancanza di figure specializzate, necessarie all’interno di alcune tipologie di aziende, per cui mancano percorsi formativi adeguati. Le scuole superiori non sempre riescono a fornire una formazione specifica e i giovani non sono sufficientemente preparati per il lavoro in azienda dopo l’istruzione secondaria. Pensiamo anche ai percorsi di alternanza tra scuola e lavoro, che sono ancora poco strutturati e solitamente troppo brevi. Credo si tratti di un tema culturale, per cui la scuola – anche storicamente – è di per sé separata dal mondo del lavoro. Si aggiunge il fatto che gli istituti professionali sono ancora considerati di serie B rispetto a una formazione liceale.
Su questo è necessario cambiare passo perché il mondo del lavoro è in continuo mutamento e si lavora in un mercato globale che richiede competenze sempre più aggiornate. Anche solo 10 anni fa un diploma dava maggiori garanzie per un certo tipo di carriera professionale mentre adesso diventa quasi naturale continuare a formarsi, anche dopo il conseguimento del titolo di studio, perché le stesse professioni si evolvono e richiedono nuove competenze. I percorsi lavorativi si allungano, così come le carriere, e a volte nasce anche l’esigenza di ri-presentarsi in altri mondi e di cambiare ambito lavorativo.
Esiste poi un’altra questione culturale, anch’essa in fase di cambiamento: sembra che la formazione universitaria, per alcune persone, sia una necessità (quasi un dovere). Esistono comunque professioni per cui una laurea triennale è già sufficiente. Pensiamo all’ambito della comunicazione, dove molto si impara lavorando sul campo. Se in passato per svolgere alcune professioni era sufficiente possedere un titolo di studio, adesso ci sono situazioni in cui invece il percorso di formazione si attiva dopo il proprio percorso professionale.
Resta il fatto che nel nostro Paese sono ancora pochi i percorsi “ibridi” che aggiungono alla formazione umanistica competenze tecniche, manageriali, economiche. Tutto ciò aumenta il divario tra i vari ruoli e crea una mancanza di competenze che invece sarebbero utilissime per ogni tipo di carriera professionale. Inoltre, iniziamo le superiori e viviamo in una classe con le stesse persone per 5 anni avendo rari momenti di confronto e di scambio anche intergenerazionale fuori dall’aula. Le scuole superiori tendono a delegare l’orientamento alle Università e anche le famiglie non sono supportate nelle scelte, aumentando la confusione sul futuro.
Fortunatamente, c’è una tendenza ad accogliere la possibilità di modificare il proprio percorso, trovare e sperimentare nuove strade. Si sta iniziando a capire che cambiare facoltà, università, o lasciare un percorso di studio non rappresenta più una disgrazia, o meglio, si inizia ad accettare il fallimento che viene vissuto da alcuni giovani (non tutti però) anche come una risorsa. Tutto ciò è possibile grazie a una serie di storie imprenditoriali che dimostrano che i percorsi possono essere variegati, con alti e bassi, e che attraverso una scelta sbagliata si può trovare la strada giusta.
Allo stesso modo il fatto che uno stage vada male ha in sé un valore positivo, spesso riconosciuto sia dagli studenti che dalle organizzazioni: è un modo per capire cosa si sta cercando. La narrazione che emerge da queste tematiche è proprio quella dell’apprendimento che può arrivare dagli errori, il fatto di poter anche scoprire qualcosa di nuovo, di imparare grazie allo scontro con un mondo dove si fa fatica a stare.
Anche la pandemia ha sicuramente permesso di creare nuove consapevolezze, mettendo in luce molte criticità ma anche creando nuove opportunità. Quando i periodi di lockdown sono andati scemando, la nostra Università ha ricevuto moltissime richieste di stage e di lavoro. Il mercato si è risollevato, ma d’altro canto abbiamo visto e sentito molto parlare del fenomeno delle grandi dimissioni (anche noi, insieme ad Excursus +, ne abbiamo parlato qui). Adesso l’attenzione è posta maggiormente sul benessere dell’individuo, ma anche su come il lavoro è stato trasformato. Pensiamo allo smart working: un giovane che ha iniziato l’università prima del COVID-19 trova ora un mondo completamente diverso. Come ha acquisito le competenze che gli servono per entrare in questo “nuovo” mondo del lavoro?
Lo smart working, tra l’altro, richiede spesso competenze più raffinate di quelle che il lavoro in presenza comporta, perché non prevede un affiancamento continuo e bisogna saper comunicare senza il corpo, dosando le parole. Le stesse organizzazioni devono ri-settarsi in questo senso, ridefinendo i processi di lavoro e sperimentandone di nuovi.
Noto però una maggiore consapevolezza da parte dei giovani rispetto alle loro carriere: in molti hanno in mente che tipo di lavoro vorrebbero fare, dove e come vorrebbero lavorare. Milano, che è il contesto in cui vivo e lavoro, offre anche molte possibilità diverse e rende più facile, sotto questo punto di vista, la loro ricerca. Formarsi è il mezzo per raggiungere un determinato obiettivo, che lascia comunque aperta la possibilità di cambiare strada e sperimentare nuovi percorsi, sia formativi che professionali. Qui, ancora una volta, ritorna l’individuo: la possibilità di portare ciò che si è, oltre alla propria laurea o al proprio percorso di studi, all’interno delle organizzazioni. Faccio un esempio: imparare una nuova lingua, fare un corso di fotografia, viaggiare. Sono tutti elementi che arricchiscono le persone e le loro soft skills, dando valore anche alle proprie competenze professionali. Così le organizzazioni iniziano a rilevare questi aspetti; ovvio, non tutte, ma questa è la direzione che io riesco a leggere. A volte le realtà più piccole chiedono di essere accompagnate in questi percorsi, mentre le grandi aziende sempre di più sono dotate di uffici e figure che possono investire su questi temi.
C’è un’ultima considerazione da fare: a volte un bravissimo studente non è un bravissimo lavoratore. Anche qui tornano le soft skills e le caratteristiche dell’invidio. Finire l’università in corso con tutti 30 e lode non significa necessariamente essere pronto e adeguato per il mondo del lavoro. Ciò che sempre di più interessa anche alle aziende è la persona, e il suo percorso.
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Foto Karolina Grabowska @Unsplash