Imma Carpiniello è fondatrice e presidente di Cooperativa Sociale Lazzarelle, un’iniziativa che offre opportunità di lavoro e formazione per le donne detenute nel carcere di Pozzuoli.
Stare in carcere è stare in una bolla. Quali sono le principali sfide che le donne con cui lavorate affrontano a causa dell’isolamento dal mondo esterno? Come il lavoro può aiutare a rompere la bolla?
La nostra cooperativa ha due caratteristiche. La prima è che si trova all’interno del carcere, ma fuori dall’area detentiva. Le donne escono dalle celle e vengono al lavoro senza vigilanza. Questo meccanismo rompe già, almeno in parte, la bolla, perché permette di entrare in un contesto che almeno in parte non ha sorveglianza.
Il carcere ha poi certamente una funzione contenitiva: è una bolla che ti include. Questa contenzione agisce in varie forme. La più forte è sicuramente quella farmacologica: le donne e gli uomini che sono in carcere molto spesso vengono contenuti con i farmaci, ma non è questo il caso nostro. Una seconda contenzione sta nell’infantilizzare le persone, spogliarle di tutto ciò che può essere pensiero autonomo, decisione. In carcere non è possibile decidere a che ora svegliarsi o a che ora andare a dormire. A un certo punto le celle si aprono, c’è un orario in cui si chiudono e uno in cui la televisione si spegne. Non c’è mai la libertà di chiudersi la porta dietro le spalle, perché ovviamente c’è un agente che lo fa al tuo posto. Tutto ciò che di cui si ha bisogno avviene tramite una richiesta che in gergo viene chiamata domandina – anche questo dà molto l’idea dell’infantilizzazione a cui mi riferisco.Come rompiamo questa bolla? Dando un’opportunità di crescita e proponendo percorsi autonomi all’interno della torrefazione, includendo le persone nelle nostre scelte di produzione: quanto caffè va preparato? Quanti clienti vanno soddisfatti? Quanta merce ci vuole? Il caffè e i nostri prodotti sono strumenti attraverso i quali le donne si ricostruiscono, riacquisiscono consapevolezza di ciò che sanno fare. Riconquistano un pezzo di loro stesse. Molte volte quando si parla del sistema carcere si pensa alle porte girevoli: esci dal carcere per poi rientrarci. In primo luogo perché dopo anni di detenzione è difficile fare qualsiasi cosa; anche la memoria muscolare dell’azione si è perduta. Le opportunità non ci sono in partenza: si tratta di persone che spesso vengono da quartieri periferici, da contesti di violenza domestica, economica, psicologica oltre che fisica, con una bassa scolarizzazione. Si parla moltissimo di dispersione scolastica e di povertà educativa; il risultato di questa situazione sono le donne e gli uomini che entrano in carcere. Quello che noi facciamo con Lazzarelle è provare a rompere la bolla.
Ci sono però moltissime donne che restano escluse dalla vostra bolla.
Purtroppo si. Noi seguiamo poche donne per volta, non possiamo includerle tutte. Anche perché tutte le donne che lavorano con noi hanno un contratto, vengono regolarmente pagate. Questo aspetto è necessario all’interno del percorso di ricostruzione delle loro vite. Ma noi siamo una micro impresa, non abbiamo la possibilità di coinvolgere tantissime persone. Da quando abbiamo cominciato ad oggi 86 donne sono state incluse nel nostro percorso. Queste persone rimangono a lavorare con noi in torrefazione da un minimo di 8 mesi ad un massimo di 2 anni. Per selezionarle collaboriamo con l’area educativa del carcere, che ci propone un elenco di donne che possono accedere all’articolo 21 (relativo al lavoro esterno). Facciamo con loro dei veri e propri colloqui, per capire se realmente esiste un interesse e spieghiamo in cosa consiste il lavoro. Quindi facciamo una selezione.
In questo processo ci sono almeno 3 bolle: quella delle detenute che partecipano al vostro progetto; quella delle detenute che ne sono escluse; la comunità esterna che vi frequenta e vi conosce, che acquista i vostri prodotti. Come queste bolle interagiscono tra loro?
La bolla che interagisce prevalentemente con noi è quella della comunità esterna. Quando consegniamo il caffè o i nostri prodotti e riceviamo un feedback positivo da parte dei clienti lo riportiamo sempre al nostro interno perché è motivo di grande orgoglio, elemento di interazione fortissima. Poi, da quando abbiamo aperto il bistrot, la comunità esterna interagisce tantissimo con le donne che vi lavorano, che sono in semilibertà. Con loro si crea un rapporto diretto.
Negli ultimi anni abbiamo fatto l’esperimento di portare anche la scuola all’interno del carcere e di fare incontrare le detenute con le classi degli istituti superiori. Abbiamo raccolto due risposte. La prima riguarda un aspetto educativo, per cui i ragazzi capiscono davvero come è la vita in carcere. Il secondo riguarda le detenute, che hanno visto in questi ragazzi dei modelli di vita possibile per i loro figli, scoprendo che il ciclo di cui loro sono state vittime può essere spezzato. Hanno cominciato a immaginare che forse si possono aprire altri scenari, diversi da quelli conosciuti.Vi sono però diversi punti critici, soprattutto in una città come Napoli. Ci è capitato più volte che qualcuno venisse da noi per farsi assumere, lamentando di doversi fare incarcerare per poter lavorare. Mi è capitato di vedere la disperazione di genitori con figli disabili che volevano lavorassero con noi, perché trovavano inconcepibile che dessimo da lavorare a dei carcerati e non ai loro figli.
Tutti pensano che il carcere sia un luogo in cui rinchiudere qualcuno e poi gettare la chiave, senza rendersi conto che la pena è già la privazione della libertà. Io credevo che saremmo stati tutti più aperti dopo aver vissuto la reclusione da lock down durante la pandemia. Ma abbiamo la memoria corta e sembra che ci siamo dimenticati la fatica di stare reclusi, sebbene in casa e con tutte le nostre comodità.
In questo momento, a seguito delle scosse sismiche a Fregene – dove ha sede il carcere in cui lavorate – forse la bolla potrebbe scoppiare. Perché senza il carcere, non può esserci nessuna bolla, e nemmeno il vostro lavoro. è possibile spostare la Bolla, preservarla? E cosa accadrebbe se la bolla effettivamente scoppiasse?
Con le scosse il carcere è stato chiuso, sfollato. Le detenute sono state spostate in tante carceri della Regione. Stiamo vivendo un dramma collettivo. Perché il carcere era le detenute, gli agenti di polizia penitenziaria, l’amministrazione, l’area educativa e tutte le attività trattamentali che c’erano al suo interno. Ci siamo trovati tutti quanti fermi dalla sera alla mattina.
La bolla allora può essere spostata? In teoria sì, se si trovasse uno spazio dove poter ricostruire il modello, l’ecosistema presente a Pozzuoli.
In questo momento però siamo ferme con la nostra attività all’interno del carcere. Alcune delle donne che lavorano con noi sono lontane e non sappiamo se e come rientreranno sulla provincia di Napoli. Stiamo immaginando che cosa fare, se spostare la torrefazione all’interno, ma non è una semplice perché la produzione di caffè è complicata e complessa. Anche in questo caso l’obiettivo è quello di preservare la bolla.
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