In queste ultime 10 settimane ho intensificato tempi e luoghi di ascolto (io ma anche i miei colleghi); nelle prime 4 settimane di quarantena almeno 130 ore: tante fatiche, tanti sbigottimenti ma anche qualche stimolante nuova progettualità… sempre un file rouge: il lavoro.
Ed è proprio dal lavoro che ripartiamo con questa newsletter (nuova nella sua veste grafica, nuova nel suo taglio, con un piacere ancor più profondo di raccontare ciò che vediamo, intuiamo, studiamo).
Maggio è il mese del lavoro. E se mi soffermo su questo 1° maggio all’insegna del COVID che cosa sia il lavoro mi risulta ancor più confuso. Se lo sono chiesto tutte le organizzazioni, tutte le persone incontrate, da differenti prospettive. Lavoro come costo, lavoro come opportunità. È in questo binomio che colgo la fatica dello stare in piedi in questo momento. E colgo anche la fragilità di parecchie organizzazioni nuovamente sollecitate dal coronavirus, evento sempre meno passeggero e sempre più connotante il lungo periodo che sta di fronte a noi.
Lavoro come costo. La drammaticità del momento rileva l’inconsistenza economica e finanziaria di molte organizzazioni che il virus mette semplicemente in mostra, divenendone il capro espiatorio; inconsistenza che nel corso dell’anno avrebbe potuto prendere un’altra forma, un altro nome. Si tratta di quelle realtà indebolite dalla precedente crisi e da eventi congiunturali oppure da una mancata o troppo limitata visione di sé e del mondo. Alcune posso definirle belle realtà che però sono arrivate a questa primavera già troppo stanche e lacerate. Fra di esse qualcuna non arriverà alla fine dell’anno (nello specifico di quelle non profit, un terzo secondo Flaviano Zandonai, ma poi ci sono anche le profit…) e alcune stanno tentando, non sempre con la dovuta serenità di decisione, di usufruire della cassa integrazione straordinaria offerta del Governo (più di 8,5 milioni i lavoratori coinvolti). E quando penso ad alcune (alcune non tutte) fra quelle che stanno usufruendo di questo ammortizzatore sociale mi chiedo il perché. Mi chiedo se il sospendere per alcune settimane il lavoro sia opportuno. Se non sia questo, invece, il momento per pensare a nuove forme di lavoro, nuove risposte ai bisogni dei propri utenti/beneficiari ma anche inedite forme di solidarietà fra colleghi/lavoratori (non tutti possono lavorare senza percepire a fine mese lo stipendio, non siamo tutti sulla stessa barca). Sto pensando a organizzazioni di grandezza medio/piccola, nelle quali ci si dovrebbe conoscere per nome, dove le fatiche ma anche le competenze preziose di ciascuno dovrebbero essere note e riconosciute. Organizzazioni in cui fermare il lavoro alleggerisce le casse, apre all’ipotesi di arrivare al prossimo autunno (ma in un tempo sospeso l’autunno è un miraggio), ma crea anche l’incertezza della ripresa: il tempo trascorre ed è nel qui e ora quotidiano che i progetti, le vie d’uscita possono prendere forma, che il lavoro diventa non solo costo, non solo modo di riempire un tempo ma opportunità di pensiero e di azione, impattante su una piccola comunità: quella che abita l’organizzazione e quella che abita il suo territorio di azione.
Lavoro come opportunità. Ho ascoltato anche narrazioni differenti, quelle di organizzazioni per le quali il lavoro è un costo ma è anche un’opportunità per stare nell’oggi, immaginando ciò che l’autunno porterà con sé e ciò che cancellerà (per un periodo o per sempre). Laddove i servizi, i prodotti, stanno perdendo di significato e di valore, è ancor più necessario lavorare per ricollocarci velocemente, per individuare i nuovi bisogni e spazi nuovi da riempire, quelli che fino a qualche settimana fa non avremmo immaginato e che ora si stanno palesando. Sospendere il lavoro, ridurlo dedicandosi solo all’ordinario temo che sia fatale per alcune realtà, che hanno ancora tanto da agire e che non possono rischiare di avere un grande futuro dietro di sé; potrebbero così perdere delle opportunità che per essere colte richiedono un tempo di lavoro tutelato. Non solo un monte ore differente ma anche una qualità di tempo diversa.
Ripercorrere in queste settimane amare e sospese il nostro piano strategico e il nostro modello di business (a partire da ciò che ci pare stia venendo meno), attivare forme generose di collaborazione e di collaborative learning, guardare al contesto in cui stiamo (andando un po’ oltre i nostri confini), ritornare alla nostra vision può rivelarsi un esercizio propedeutico ad abbattere i costi del lavoro, a garantire a ciascuno il suo equo stipendio, a creare nuove opportunità per affrontare l’autunno e l’inverno che inesorabilmente arriveranno.
Ritrovato un significato al nostro agire e a quello delle nostre organizzazioni e arginate le ansie che stanno in noi e che non possiamo negare, credo che sia bene tornare a lavorare – ciascuno secondo le proprie possibilità – perché il lavoro (rispettoso, visionario, solidale) genera lavoro. Gli incentivi sono preziosi ma non sopperiscono alla perdita di senso che il lavoro spesso ha assunto in parecchie organizzazioni che accosto. Il lavoro è diventato un fare, non condiviso, non riconosciuto (neppure economicamente e neppure in quelle organizzazioni che hanno un’identità cooperativa). Quando nelle scorse settimane in alcune realtà si è palesata la necessità di aumentare le ore di lavoro, di fare degli straordinari, qualcuno ha fatto un passo indietro: ed è proprio in quel fare senza senso, nella non condivisione e nel mancato riconoscimento – in primis economico – che dobbiamo leggere il passo indietro, astenendoci da valutazioni moralistiche ma sostando su un lavoro che ha perso di significato per chi lo svolge e molto spesso anche per chi chiede che venga svolto.
Ripenso ad alcune immagini fordiste, ripercorro il per me prezioso Rispetto di Richard Sennett e ritengo che questo virus palesi ciò che per molti anni alcuni si erano dimenticati: che il lavoro è dignità, condivisione e visione. Parole antiche ma che ci possono traghettare verso l’innovazione. O traghettiamo o tutto sarà perso, anche il lavoro.
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Image by MustangJoe from Pixabay