Tutto ciò che non si può misurare non si può conoscere. Questo mantra centenario continua ad affascinare il mondo scientifico, del business e della pubblica amministrazione. Ogni scelta suffragata da dati inoppugnabili ci rende più sicuri che quello che sappiamo sia la verità, che quello che produciamo sia desiderato e che le nostre politiche pubbliche ottengano consenso. Chi, cosa, come, dove e quando le attività di interesse pubblico vengano misurate è cosa più articolata.
La Theory of change ci suggerisce di partire dalla fine, anteponendo i fini ai mezzi, visualizzando i cambiamenti desiderati, costruendo a ritroso un percorso virtuoso e progettando gli indicatori per misurarne i risultati.
Ma oltre al cambiamento è importante la narrazione che se ne fa, esterna e interna alle organizzazioni, in modo che i due piani si influenzino continuamente. Le società contemporanee sono ecosistemi interconnessi e si modificano rapidamente, le organizzazioni non sempre. Così è possibile che i cambiamenti positivi intravisti da un’organizzazione possano essere conseguiti da organizzazioni completamente modificate o che organizzazioni resilienti ottengano cambiamenti completamente diversi dalle mission per cui sono nate. Si possono pescare esempi nei rapporti fra amministrazione locale e welfare, fra industria e innovazione, fra sindacato e lavoro.
È lecito domandarsi: fin dove è possibile e ragionevole valutare la magnitudo e l’irradiamento dei cambiamenti conseguenti lo sviluppo di un prodotto, un progetto, un programma, una policy o un’idea?
Un’amministrazione che combatte la povertà potrebbe puntare sullo stimolo al reddito di determinati gruppi e misurarne la crescita. Ma se al contempo crescesse anche la diseguaglianza con il resto della popolazione, aumenterebbe la povertà percepita. Se ci fermassimo all’indicatore reddito saremmo rassicurati, misurando anche l’indicatore diseguaglianza saremmo allarmati. Serve una gerarchia e questa ci viene dall’etica più che dalla matematica. I policy maker di tutto il mondo hanno a disposizione gli stessi strumenti per valutare i cambiamenti, ma alcuni si focalizzano sul Prodotto Interno Lordo, altri osservano la complessità attraverso l’Indice di Sviluppo Umano e altri si ingegnano a cogliere i segnali sottili della Felicità Interna Lorda.
Anche il mondo del business irride il mantra della misura oggettiva parafrasandolo in Se c’è qualcosa che non puoi misurare, vale la pena che te ne occupi. Il coraggio dell’imprenditore, l’intuito del manager o la cultura di un team sfuggono al radar dei Key Performance Indicators. Ecco perché investimenti sicuri talvolta si rivelano fallimentari e accade che prodotti di scarto possano cambiare il mondo. Come internet.
Internet consente ai giganti della digital economy di estrarre dai big data più informazioni su di noi di quelle che noi stessi crediamo di avere. Questo gli conferisce il potere decisivo, non solo di cambiare il nostro comportamento (consumi, preferenze politiche, visioni del mondo), ma di cambiare noi stessi. I processi cognitivi e comunicativi umani nell’era digitale sono profondamente diversi da quelli della preistoria analogica.
Come si misura la profondità, la vastità e gli effetti nel tempo di questo cambiamento che avviene in larga misura a nostra insaputa? In Italia i futuri Enti del Terzo Settore, saranno chiamati a essere più rigorosi di pubbliche amministrazioni e aziende nel rendicontare l’impatto della loro azione. Un buon motivo per farlo è che i finanziatori pubblici, privati e misti lo pretenderanno. I programmi Pay for Results e i Social Impact Bond, ad esempio, imporranno al non profit di dimostrare di essere più efficienti dello Stato. Il differenziale di efficienza si trasforma in un valore economico che contiene il margine di guadagno che, grazie agli intermediari mobiliari, potrà essere condiviso con gli investitori pazienti. Organizzazioni, mercati, intermediari e pubbliche amministrazioni dovranno convergere su indicatori certificati rispetto gli esiti dei programmi. Non a caso le esperienze più note a livello internazionale provengono della rieducazione carceraria, che riesce a racchiudere nell’inoppugnabile indicatore recidiva gran parte della valutazione di impatto.
Ma esistono indicatori oggettivi e universali per valutare gli interventi di interesse pubblico? Un’organizzazione che si occupa di recupero e redistribuzione di eccedenze alimentari sarà probabilmente in grado di valutare al centesimo il valore del cibo recuperato, il valore incrementale del cibo redistribuito e il valore del mancato smaltimento. Un’organizzazione che si occupa di prevenzione del suicidio potrà misurare allo stesso modo l’impatto economico della propria attività? C’è quindi da aspettarsi che il futuro mercato pubblico-privato prediligerà le organizzazioni e i programmi più facilmente misurabili? Agli altri non resterebbe che adeguarsi con un maggiore sforzo metodologico, organizzativo e finanziario, che forse sarà ripagato dall’aumento dell’efficienza e della maggior competitività.
O forse da innovazioni che non sappiamo ancora prevedere.
Credits: Biel Morro