Alzare la mano ha un che di primordiale. Ricorda i primi passi mossi in un contesto diverso dalla famiglia; un contesto in cui frequentemente l’invito a esprimere i propri bisogni, a condividere domande e considerazioni sul mondo circostante passa proprio dalla consuetudine di questo gesto: semplice e universale ma non scontato.
Alzare la mano, palesarci in un gruppo attraverso questo movimento del corpo, non è un automatismo: avverto un bisogno, formulo una domanda o una considerazione ma non è detto che tutto ciò poi si articoli attraverso parole esplicite, formulate ad alta voce.
C’è una distanza fra il bisogno avvertito e il darsi il permesso di palesarlo. Quella distanza si assottiglia o si allunga in ragione sia del vissuto esperito da ciascuno sia, ancora una volta, della cultura organizzativa nella quale ci si trova.
Il vissuto rimanda a esperienze nostre e di altri, ai contesti più intimi e famigliari ma anche ai primi passi mossi nella scuola, dove l’alzare la mano è sia atto attraverso il quale viene chiesto un permesso sia un modo per prendere parte a una decisione, per offrire il proprio contributo, per dialogare.
È questo vissuto che diventa nel tempo un habitus: alzare la mano spesso oppure raramente; alzarla sempre o non alzarla mai.
Quando in équipe ci siamo confrontate su questo tema, abbiamo evocato l’uomo che non deve chiedere mai, quello che non si interroga, non interroga e che dunque non alza la mano perché ogni bisogno, ogni domanda trova un’immediata risposta nel suo essere forte.
Chiedere, alzare la mano, sono espressioni di fragilità, di curiosità, di attenzione alle persone circostanti. Paulo Freire parla di pedagogia della domanda: imparare a chiedere, lasciarsi interpellare, dare uno spazio e un tempo a ciò che nell’immediato non siamo in grado di comprendere e di orientare verso una risposta. Di questo l’uomo che non deve chiedere mai non è capace.
Ci sono organizzazioni permeate da questa cultura del non chiedere mai e dunque del non alzare mai la mano (che poi vuol dire non autorizzarsi e non autorizzare), organizzazioni nelle quali il claim è bastava chiedere (titolo di un’interessante graphic novel di Emma, pubblicata da Laterza). In quell’imperfetto c’è un mondo, ci sono vissuti, c’è un’esplicita richiesta a essere forti, a non fare domande, ad arrangiarsi e ad assecondare comunque e sempre.
Quando entriamo in un’organizzazione troviamo altro: entriamo in essa proprio perché qualcuno ha alzato la mano, ci ha raccontato la sua fragilità, ha condiviso una domanda per la quale desidera darsi un tempo per trovare una risposta. E noi con lui o lei.
La nostra consulenza nasce proprio da quel gesto, improvviso o meditato che sia, che ci interpella, mettendoci di fronte a una persona e a una comunità con dei desideri. Alzare la mano è espressione di un desiderio, un elevarsi alla ricerca di qualcosa che non c’è (la stella etimologicamente intrappolata nel desiderio) ma che vorremmo incontrare; è una competenza da coltivare, in ciascuno, in ciascuna e in tutti e tutte.
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Foto Annie Spratt @Unsplash