Alessio Del Sarto è Direttore della Fondazione SociAL e membro del Consiglio Nazionale di Assifero, con una lunga esperienza nel Terzo Settore e nell’innovazione sociale.
In che modo un Piano strategico (PS) può guidare la crescita di un’organizzazione, rafforzare le relazioni con i partner e creare un impatto positivo sulle comunità in cui opera?
Il rapporto con un ente finanziatore come il nostro, piccolo ma ben radicato sul territorio, cambia notevolmente se un ente ha un PS, anche se non lo chiediamo espressamente in nessuno dei nostri bandi. Chiediamo però una serie di informazioni, più o meno opzionali – tra cui un curriculum, la descrizione dei progetti in corso e altri ancora – che ci permettono di capire meglio se esiste in effetti un PS vero e proprio, ma anche se sono state fatte delle riflessioni strategiche all’interno delle organizzazioni. Questo cambia, almeno in parte, il rapporto che abbiamo con loro.
Perché è molto bello sentirsi una goccia in mezzo all’oceano; ma essere l’unica goccia, l’unico mezzo per sostenere un progetto, non funziona. Essere parte di un percorso più ampio alleggerisce, almeno in parte, la responsabilità percepita del finanziatore. Questo ti permette di sentirti più motivato a sostenerlo e a collaborare per generare un impatto reale, insieme. Quel pezzetto di percorso condiviso lo affronti con più energia, perché sai di collaborare con qualcuno che ha interessi e obiettivi diversi dai tuoi, ma con cui condividi il desiderio di valorizzare ciò che avete costruito insieme.
Al contrario, quando ti trovi davanti a una realtà che presenta un unico progetto, come se fosse l’intero suo universo, si crea un rapporto sbilanciato, in cui la responsabilità ricade tutta su di te. Questo può portarti a scegliere di non finanziarlo, perché percepisci che chi hai di fronte non si sta assumendo pienamente la responsabilità del proprio percorso o della propria visione.
D’altro canto, sappiamo che se chiedessimo alle organizzazioni di condividere un documento che presenti il loro Piano strategico, il 99% di loro non ne avrebbe uno formalizzato. E, in tutta onestà, neanche noi in Fondazione SociAL al momento disponiamo di un PS strutturato. Tuttavia, alcune fondazioni – più virtuose di noi – stanno adottando questo strumento in modo sistematico. Non mi riferisco solo a realtà di grande portata come la Compagnia di San Paolo, che per dimensioni e capacità erogative è tra le principali in Italia, ma anche a diverse organizzazioni di dimensioni simili alla nostra, che hanno compreso l’importanza di dotarsi di un PS strutturato.
Noi siamo partiti approcciandoci al Bilancio Sociale, perché vogliamo tracciare un punto fermo su ciò che stiamo facendo oggi, creando una base solida su cui proiettarci verso il futuro. Ma il nostro percorso non si fermerà qui: arriveremo anche a formalizzare un PS.
Come riuscite a capire se un’organizzazione ha intrapreso una riflessione strategica sul proprio percorso e sul proprio futuro? Quali segnali vi indicano che c’è stata una visione consapevole e pianificata dietro le sue scelte?
In parte lo capiamo dal progetto stesso, in parte dal modo in cui sono strutturati i documenti, dal curriculum al funzionigramma. Quando un progetto è inserito in una galassia di attività più ampie, emergono connessioni significative: le relazioni con altri stakeholder, che a loro volta sono partner di altre organizzazioni e reti, raccontano molto. Diventa evidente l’esistenza di una rete di movimenti coordinati, un percorso consapevole che colloca il progetto come un punto su una retta orientata in una direzione chiara. Questo livello di integrazione e coerenza è un segnale concreto di una riflessione strategica attiva.
La scheda di presentazione di ciascun ente assume quindi un ruolo sempre più significativo, a volte più rilevante della scheda progettuale in senso stretto. Questo perché il nostro obiettivo è avviare sperimentazioni che puntino a sostenere l’ente nella sua attività istituzionale complessiva, piuttosto che concentrarsi esclusivamente su una singola attività progettuale. Diventa fondamentale riconoscere sempre meglio l’identità e le caratteristiche dell’ente, dotandoci di strumenti adeguati a leggere e comprendere qualsiasi tipologia e dimensione organizzativa. Solo così avrà senso, in futuro, richiedere anche un PS formalizzato, come parte integrante di questa visione.
Come reagiscono le organizzazioni di fronte a questo tipo di richieste?
Sin da quando siamo nati, dal 2013, abbiamo sempre chiesto informazioni dettagliate agli enti che finanziamo. Non si tratta di richieste calate dal nulla, ma coltivate sin dall’inizio della relazione. Non vogliamo invaderli di richieste, per poi erogare, a volte, cifre contenute.
Da un po’ di tempo abbiamo cominciato a dialogare con i nostri Partner territoriali – così chiamiamo i soggetti a cui eroghiamo dei contributi – seguendoli durante tutto lo svolgimento dei loro progetti. Credo sia chiaro per tutti che, a un certo punto, anche per loro sarà un grande vantaggio lavorare in questo modo: non dovranno più presentarci progetti singoli, ma potranno semplicemente rappresentare la loro attività istituzionale e, per questa ricevere un sostegno. Stiamo procedendo lentamente, e crediamo che tutti arriveranno preparati.
In questo momento, ci stiamo dedicando all’analisi di un centinaio di indicatori sviluppati da Banca Etica per valutare gli enti. Non mi riferisco agli indicatori prettamente creditizi, ma a un set di indicatori, sempre in evoluzione, focalizzati su sostenibilità e impatto sociale. Stiamo dialogando con realtà che adottano approcci simili, per apprendere e migliorarci, confrontandoci con chi è più avanti di noi. L’obiettivo è sviluppare strumenti che ci consentano di valutare se un’organizzazione meriti un contributo, assegnandolo per sostenerla nel suo operato, riducendo al minimo gli oneri rendicontativi e puntando invece sulla costruzione di una fiducia reciproca.
Questo approccio è una tendenza internazionale, che coinvolge molte organizzazioni, soprattutto in Europa.
Anche in Italia alcuni si tanno muovendo in questo senso: la Fondazione Mazzola ha fatto degli esperimenti in questa direzione, soprattutto rispetto al tema di ridurre la rendicontazione. E devo dire che tutte le fondazioni che stanno intorno a Assifero si confrontano su questo tema da anni, facendo un grande lavoro di formazione e informazione.
Non credo, tuttavia, che qualcuno abbia ancora trovato la formula perfetta. Ci sono molte controindicazioni e rischi da considerare: investire risorse su più anni senza avere la certezza di poterle mantenere, ridurre la platea dei beneficiari lasciando esclusi molti enti che lavorano su progetti importanti, oppure bloccare l’ingresso di nuovi enti finanziabili per un periodo di tempo prestabilito. In breve, queste scelte possono generare una serie di complessità che richiedono un approccio sperimentale e una capacità di adattamento per essere affrontate al meglio.
Il nostro vantaggio è quello di essere molto radicati nel territorio, di conoscere direttamente tutti i soggetti che sosteniamo. I nostri tutor seguono i progetti con dei calendari abbastanza fitti. Spesso si appassionano ai progetti e gli enti beneficiari sono contenti di farsi “bazzicare” dai loro tutor, per cui la frequenza di incontro diventa addirittura superiore a quella pianificata.
Rilevi una resistenza da parte delle organizzazioni nei confronti di richieste di questo tipo? Oppure rispetto alla necessità di prendersi del tempo per formalizzare o riflettere in modo strategico sui propri obiettivi?
Tutte le organizzazioni riconoscono l’utilità di queste azioni. Tuttavia, nella quotidianità estremamente complessa del terzo settore, finiscono spesso relegate in secondo piano, se non addirittura al terzo o quarto. In alcuni casi, vengono persino accolte con frustrazione o rabbia da parte di chi si vede proporre percorsi più strutturati, perché percepite come un ulteriore ostacolo che sottrae tempo alle attività essenziali per la sopravvivenza.
Questo è uno dei problemi del terzo settore: non solo manca una cultura radicata della pianificazione strategica, ma scarseggiano anche il tempo e le risorse necessarie per attivarla. Forse, offrire un po’ di respiro attraverso contributi più flessibili e diversificati potrebbe aprire la strada alla possibilità di dedicare tempo anche alla riflessione strategica. Non solo per crescere, ma per garantire quella strategia di sopravvivenza che, oggi più che mai, è indispensabile.
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Briam Hurst @Unsplash