Ripercorrendo le newsletter di quest’anno, ci siamo rese conto che mentre esploravamo il futuro delle organizzazioni — tra glaciazione demografica, polarizzazioni e strumenti per allenare i futuri possibili — stavamo lasciando sullo sfondo un fenomeno che in realtà attraversa tutte queste riflessioni: la multiculturalità.
È già qui: vive nei team, nelle relazioni quotidiane, nei servizi erogati, nei modi differenti con cui le persone guardano il mondo, lavorano, comunicano, decidono. Non possiamo parlare del loro senza tenere conto delle differenze che le abitano come struttura viva, presente, operativa.
Il punto non è se la multiculturalità sia arrivata: è capire come la riconosciamo, come la gestiamo, e soprattutto se siamo disposte e disposti ad abitarla davvero.
1. Multiculturalità: un fenomeno strutturale non una dichiarazione d’intenti
2. Organizzazioni consapevoli, inclusioni fragili
3. L’esperienza sul campo. Il caso dello staff di IPSIA BiH
4. Multiculturalità come leva politica: spazio, voce e potere alle differenze
Multiculturalità: un fenomeno strutturale non una dichiarazione d’intenti
La multiculturalità riguarda chi lavora, chi coordina, chi partecipa, chi riceve. Riguarda differenze di provenienza, di esperienza, di genere, di orientamento sessuale, di lingua, di età, di visione. Eppure, spesso, questa presenza rimane silente o invisibile. Come se la differenza potesse essere osservata, raccontata, persino valorizzata ma non pienamente abitata.
Abbiamo visto questa tensione emergere con chiarezza nel lavoro svolto in maggio, quando ci siamo interrogate sugli effetti della glaciazione demografica in alcune organizzazioni, alle quali abbiamo chiesto di raccontarsi attraverso mappe generazionali. In 5 hanno scelto di rappresentarsi per capire come le diverse generazioni convivono nel quotidiano organizzativo.
Quelle mappe non ci hanno detto solo “chi c’è” in termini anagrafici, ma hanno rivelato linee culturali profonde, distanze nei valori, nelle pratiche, nei codici di relazione. E nel rappresentarsi, le organizzazioni hanno dovuto fare i conti con un’evidenza:
Chi prende le decisioni? Chi ha accesso al potere? Chi può proporre, cambiare, disfare?

Organizzazioni consapevoli, inclusioni fragili
Essere consapevoli non basta.
Spesso dichiariamo con sincerità il nostro impegno verso l’inclusione. Lo facciamo adottando linguaggi più rispettosi, creando spazi di confronto, nominando figure di riferimento per la diversità. Eppure, questa consapevolezza convive spesso con strutture fragili di inclusione, faticando ad accogliere la differenza dove davvero conta: nella governance, nei processi decisionali, nei ruoli di responsabilità.
Come scrive Chimamanda Ngozi Adichie in Il pericolo di un’unica storia:
Il problema degli stereotipi non è che sono falsi, ma che sono incompleti. Fanno sì che una storia diventi l’unica storia.
Anche nelle organizzazioni esiste il rischio dell’unica storia: un solo modo di governare, un solo linguaggio accettabile, una sola forma di autorevolezza. Tutto ciò che si discosta da questo schema viene considerato marginale, decorativo, oppure chiamato a raccontarsi ma mai a decidere.
Ed è questo che accade, spesso in modo inconsapevole, con i cosiddetti out group: giovani, persone con background migratorio, parsone appartenenti alla comunità LGBTQIA+. Sono spesso invitate a testimoniare — nei panel, nei percorsi di comunicazione interna, nei workshop — e la loro presenza è valorizzata, anche sinceramente. Ma quella testimonianza resta un gesto simbolico, non strutturale.
Altro è cedere loro spazi nella governance: oltre che ascoltarli farli partecipare alla definizione delle regole, delle priorità e delle strategie.
Includere significa anche (e soprattutto) rinunciare a qualcosa.
E qui sta la domanda più difficile:
Quanto siamo disposti e disposte a perdere per rendere davvero partecipi coloro che portano visioni differenti?
Una perdita di controllo, una redistribuzione del potere, uno spostamento del centro. Non si tratta di accogliere l’altro perché arricchisce ma di accettare che l’altro possa trasformare ciò che siamo.
Come suggerisce Annamaria Anelli, l’inclusione autentica passa anche dal linguaggio: dalle parole che scegliamo per nominare, per raccontare, per descrivere. Un linguaggio che includa è un linguaggio che ascolta e che lascia spazio. E forse è da lì che possiamo (ri)cominciare.

L’esperienza sul campo. Il caso dello staff di IPSIA BiH
Parlare di inclusione all’interno delle organizzazioni è facile quando restiamo sul piano dei valori. Più complesso è parlarne quando si entra nella vita quotidiana dei gruppi di lavoro. Quando ci si confronta, davvero, con ciò che accade quando le differenze agiscono e non solo quando vengono rappresentate.
Il nostro punto di osservazione nasce anche dall’esperienza concreta in un network internazionale attivo su temi ambientali, di confine e di sviluppo di comunità in Bosnia Erzegovina. Una realtà profondamente multiculturale non solo per le provenienze, ma anche per le appartenenze culturali, religiose e generazionali delle persone coinvolte.
Nel gruppo convivono:
- persone nate e cresciute nei Balcani, segnate da memorie di guerra e migrazione;
- professioniste italiane con approcci metodologici differenti;
- operatrici e operatori più giovani con esperienze di volontariato europeo;
- donne e uomini con diversi orientamenti spirituali, culturali e linguistici;
- colleghi e colleghe con vissuti personali fortemente legati al contesto migratorio, ma anche con sguardi molto eterogenei su diritti, corpo, relazione, autorità.
Questa pluralità di sguardi e approcci si traduce, nel quotidiano, in un mosaico vivo e delicato, dove la coabitazione delle differenze è reale, e non sempre semplice.
Ci sono persone più pragmatiche, persone più empatiche, chi mette prima la persona, chi prima l’oggetto. Anche le battute funzionano in modo diverso: ciò che per una cultura è ironia, per un’altra può essere offensivo.
Questa multiculturalità non è teorica, né lineare. È un dato di fatto, spesso non visibile al primo sguardo, che chiede cura, attenzione e una governance capace di riconoscerla non come problema, ma come leva di trasformazione.
Quello che abbiamo imparato, giorno dopo giorno, è che la multiculturalità può essere presente anche in strutture molto consapevoli, ma non per questo è gestita o valorizzata pienamente. A volte c’è una sorta di illusione: condividere una missione, un metodo, una vision ci fa credere che siamo tutti uguali. La realtà però ci restituisce altro.
Un gruppo multiculturale è una grande potenzialità e proprio per questo può essere anche molto fragile.
Le persone non sono neutre. Non si parte tutti dallo stesso punto di vista. Il rischio è credere che basti dirsi aperti per esserlo davvero.
Per questo, nel lavoro del network, abbiamo capito che la mediazione culturale non è solo una competenza professionale ma anche una funzione relazionale da coltivare nel gruppo. Non si tratta di conoscere tutte le culture ma di avere strumenti per accompagnare il gruppo a riconoscere che ogni persona guarda da un punto di vista differente.
Qualcuno ha lenti rosa, altri blu o verdi. Il punto non è scegliere un colore, ma potersi togliere gli occhiali e guardare insieme l’oggetto comune.
Eppure, anche quando il gruppo si regge bene, anche quando le relazioni sono mature, c’è un altro limite: quello dell’ambiente esterno.
Anche quando un’équipe lavora in modo consapevole, riconosce le differenze, le valorizza e le trasforma in risorsa relazionale e operativa, non è detto che abbia spazio per agire realmente nei contesti esterni.
È proprio in questa tensione tra governance interna e struttura del contesto che si crea un nodo critico: le istituzioni pubbliche, i sistemi normativi, la cultura dominante non riconoscono sempre quelle stesse differenze che l’équipe ha imparato a integrare nel proprio funzionamento quotidiano.
Le nostre équipe sono multiculturali, ma spesso ci troviamo a collaborare con amministrazioni che non riconoscono questo pluralismo come valore. Ti viene richiesto di avere ‘un referente’, ‘una lingua’, ‘un metodo’ uniforme.
Ma noi non siamo uniformi: siamo plurali, ed è questo che ci dà forza.
Questa divergenza produce una frizione forte: un’organizzazione può essere solida, coesa, innovativa al proprio interno, ma se l’ambiente in cui opera non è pronto o disposto ad accogliere la differenza, si genera un blocco sistemico.
Puoi costruire un’organizzazione sana. Ma se il contesto – le istituzioni, le normative, la cultura – non ti permette di crescere, allora il vaso resta quello. Anche se dentro funziona, fuori ti blocca.
Per questo diciamo che la multiculturalità interna non è sufficiente: ha bisogno di trovare alleanza, risonanza, spazio reale nel contesto esterno. Altrimenti, rischia di rimanere una tensione silenziosa, confinata all’interno dell’organizzazione, logorante nel tempo, e incapace di generare la trasformazione più ampia di cui pure porta in sé il potenziale.

Multiculturalità come leva politica: spazio, voce e potere alle differenze
Se guardiamo con onestà quanto emerso finora, comprendiamo che la multiculturalità non è solo una condizione con cui le organizzazioni devono imparare a convivere. È una leva trasformativa e una sfida radicale. Chiama in causa i rapporti di potere, la distribuzione delle responsabilità, la possibilità stessa di trasformare le strutture che ci abitano.
Quando diciamo includere non parliamo di un gesto di apertura estetica o morale: parliamo di cambiare le regole del gioco, di rivedere chi decide, come si decide e su quali basi riconosciamo e costruiamo l’autorevolezza.
Una governance “aperta” non basta se le scelte cruciali restano nelle mani di chi è già al centro. E l’attenzione alla diversità resta superficiale se agli out group viene chiesto di raccontarsi, ma non di co-definire la direzione.
La domanda ritorna, resta ancora la stessa:
quanto siamo disposte e disposti a perdere per rendere davvero partecipi coloro che portano visioni differenti?
Includere significa spostare il centro, ridistribuire potere, riscrivere i criteri della competenza. Significa, in altre parole, che chi detiene influenza deve fare spazio.
La multiculturalità, quindi, diventa un laboratorio politico: uno spazio in cui si negoziano ruoli, sguardi, regole e visibilità. Per molte organizzazioni, questo implica avviare un processo che potremmo chiamare – senza paura – decolonizzazione interna.
Non riguarda solo le ONG o i contesti “altri”: anche le organizzazioni radicate in Italia, spesso strutturate secondo codici monoculturali, gerarchici ed eurocentrici, possono interrogarsi su:
- quali codici culturali dominano le relazioni interne;
- chi ha legittimità di proporre, decidere, parlare a nome di;
- quali barriere invisibili mantengono fuori chi non appartiene al gruppo dominante, per cultura, genere, storia, lingua, età, disabilità, cittadinanza.
Decolonizzare l’organizzazione non è una provocazione: è una responsabilità. È accettare di riscrivere i criteri della convivenza organizzativa per fare spazio a soggettività diverse che non chiedono ospitalità, ma partecipazione piena.
In questa direzione cambiano anche ruoli tradizionali: il/la Diversity Manager assume il ruolo di mediatore culturale, costruttore di ponti, facilitatore di accesso. Non più gestore o gestrice della diversità, ma agente politico/a del cambiamento.
E allora, ci interroghiamo con un’altra domanda:
chi siamo disposti e disposte a lasciar entrare nella stanza dove si decide?
Perché se il futuro è davvero già qui, non basta raccontarlo.
Bisogna cedere spazio, voce, potere.
Bisogna accettare di rompere il vaso per far crescere le radici.

Le proteine di questa newsletter: Quando il mondo si ribalta
Silvia Maraone ha partecipato alla stesura di questa newsletter. Coordina a Bihać, in Bosnia-Erzegovina, i progetti a tutela dei rifugiati e richiedenti asilo lungo la rotta balcanica per IPSIA, organizzazione non governativa promossa dalle ACLI.
L’équipe di Excursus è in prevalenza femminile; poiché le riflessioni di questa newsletter nascono e si nutrono soprattutto in équipe, utilizziamo il femminile sovraesteso.
Immagini: copertina Tim Mossholder@Unplash. Nella pagina, dall’alto in basso: Marijia Zaric, Calvin Chai, Meg MacDonald, Chuttersnap @Unsplash.
