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Immaginare nuovi processi organizzativi, dentro la glaciazione demografica

Le mappe generazionali delle organizzazioni e uno sguardo su chi le abita.

Dopo aver attraversato parole, desideri e tensioni – nelle nostre newsletter, da febbraio 2025 a oggi – abbiamo lanciato un invito: provare a restituire attraverso una mappa il paesaggio generazionale di alcune organizzazioni. Non un esercizio di precisione, ma un gesto di attenzione, un modo per guardare e dare forma alle riflessioni finora condivise.

Le mappe che abbiamo ricevuto parlano lingue diverse, ma presentano tratti comuni.
Sono cinque, e arrivano da realtà molto eterogenee: una scuola primaria di una città di provincia, una cooperativa sociale, una fondazione attiva nei servizi di cura, un comune del Nord Italia, un ente di formazione. In qualche caso sono state condivise da singole persone all’interno delle organizzazioni, come gesto individuale di lettura e restituzione. È anche per questo che abbiamo scelto, in accordo con chi le ha inviate, di mantenere l’anonimato. Ne riportiamo alcune nel corso di questo articolo.

Entrando nelle mappe, si attraversano stili diversi: alcune sono simboliche, altre descrittive; alcune restituiscono un presente fotografico, altre si spingono verso ciò che potrebbe accadere.
Non stavamo cercando certezze, né verità assolute. L’intento era lasciarsi interrogare. E così abbiamo visto alberi dalle radici profonde, barche in viaggio tra generazioni, colline mosse da desideri. E qualcosa ha cominciato ad affiorare. Non come dato oggettivo, ma come campo di tensione comune. Una trama sottile, che si intreccia sotto la varietà dei linguaggi.

Una premessa, che ci guida nella lettura di queste mappe: chi ha scelto di condividere la propria mappa generazionale ha già assunto una postura di curiosità, attenzione, consapevolezza. Che il gesto sia nato da una singola persona o da un gruppo, è comunque il segno di una riflessione in atto. Questo punto di partenza ci invita a leggerle non solo per ciò che raccontano esplicitamente, ma anche per ciò che lasciano intravedere nel non detto, nel non visibile. Non (solo) criticità ma trasparenze. È proprio in questa eterogeneità che abbiamo cercato i tratti ricorrenti: quegli indizi che ci aiutano a scoprire cosa si muove, cosa si blocca e cosa pulsa dentro le organizzazioni.

E alla fine, ciò che possiamo fare, è immaginare nuovi processi organizzativi

Le giovani generazioni sono sotto-rappresentate
In 3 delle 5 mappe, laddove il dato è esplicitato, la presenza di persone con meno di 30 anni appare marginale. Sia in enti del terzo settore con oltre mille dipendenti, sia in piccole realtà scolastiche o cooperative, la fascia sotto i 30 anni raramente supera il 7-8% del totale.

Nel caso della scuola primaria, è attestata al 5% e dove esiste è spesso legata a ruoli formativi o transitori, come tirocini e stage, senza un reale inserimento nei processi decisionali o identitari.
Questa carenza sembra non riguardare solo la quantità. In nessuna delle mappe emerge l’esistenza di un percorso strutturato per attrarre, orientare e valorizzare le nuove generazioni. I giovani sono citati come presenza potenziale, “brezza” o “germogli”, ma difficilmente come soggetti pienamente attivi nel presente organizzativo.
Questa condizione – trasversale a organizzazioni diverse per natura e struttura – interroga in profondità. Non solo sul perché i giovani non arrivano o non restano, ma anche sul che cosa trovano quando entrano: quale spazio di parola, quale riconoscimento, quale possibilità di partecipare davvero alla costruzione del futuro. Non si tratta di aggiungere “un posto per giovani” in un disegno già fatto, ma di provare e ridisegnare (insieme) il paesaggio, per riconoscere che senza questa capacità di trasformarsi nessuna organizzazione è davvero sostenibile.

Le fasce intermedie sono spesso bloccate
La fascia intermedia, in particolare tra i 40 e i 50 anni, sembra essere bloccata. È una generazione che ha spesso assunto un ruolo operativo centrale, ma che raramente vede riconosciuto un margine di crescita o trasformazione.


In alcune realtà questa fascia viene descritta come “incastrata”, con “aspettative sospese” e traiettorie di sviluppo che si sono progressivamente opacizzate. Queste figure sono spesso quelle che tengono insieme i processi quotidiani, garantiscono continuità, presidiano il sapere esperienziale. Eppure, non sono percepite né come figure da sostenere né su cui investire. Non più giovani da formare, non ancora abbastanza senior per una successione di ruoli. In questo “mezzo del cammino” il rischio è quello di un invecchiamento anticipato delle energie e delle competenze, non per età ma per mancanza di visione e di fiducia.
Il problema potrebbe non essere solo di carriera, ma di senso: cosa significa oggi crescere in un’organizzazione, se non si intravedono passaggi di responsabilità, forme di autonomia, occasioni di co-progettazione? Cosa succede a chi resta a lungo in ruoli intermedi senza strumenti per ridefinirli o rigenerarli?

La multiculturalità è trasversale rispetto alla questione generazionale

Un elemento che affiora in modo meno esplicito, ma con potenziali implicazioni rilevanti, è la presenza multiculturale nelle organizzazioni. In alcune realtà, soprattutto nei servizi alla persona, la componente straniera rappresenta una parte significativa della forza lavoro, con decine di operatori e operatrici coinvolte in ruoli centrali nella cura, nell’assistenza e nella relazione educativa. Questo dato, se messo in relazione con la carenza di giovani e il blocco delle fasce intermedie, ci interroga su come può la diversità culturale contribuire a colmare il vuoto generazionale che le organizzazioni stanno vivendo. Le mappe suggeriscono alcuni indizi:

  • in molti casi, le persone di origine straniera sono presenti nelle fasce d’età operative, tra i 30 e i 50 anni, quelle stesse che a volte risultano anche “incastrate” o prive di traiettorie.
  • spesso ricoprono ruoli di prossimità e cura, luoghi dove il desiderio ancora circola, e dove la motivazione sembra meno appannata.
  • non emergono segnali chiari di valorizzazione culturale o professionale che facciano della multiculturalità una leva strategica nel ripensamento organizzativo.

In un momento in cui le organizzazioni faticano a garantire continuità tra le generazioni, la dimensione multiculturale – reale, diffusa, quotidiana – potrebbe aprire nuove prospettive. Non è una risposta, ma può diventare una domanda: come trasformare la diversità da risorsa operativa a risorsa organizzativa?

Quando i desideri sono fragili
Tra le pieghe delle mappe raccolte, al di là delle strutture e delle traiettorie, affiora in modo sottile ma ricorrente un altro tema: quello del desiderio. Non il desiderio individuale, ma l’energia collettiva che muove le organizzazioni, le orienta, le rinnova.
In molti contributi si percepisce che questa energia esiste – in alcune fasce più che in altre – ma che a volte fatica a trovare la direzione. Nei luoghi educativi, nei servizi alla persona, nei contesti di cura, il desiderio si manifesta nei gesti quotidiani, nella passione per il lavoro ben fatto, nella tensione verso un impatto trasformativo.
I giovani, dove sono presenti, portano desideri di partenza, di slancio, di senso; le fasce intermedie esprimono bisogni di riconoscimento e possibilità di generare valore; chi ha una maggiore anzianità lavorativa porta desideri di trasmissione, di cura, di rilettura del proprio ruolo.
Eppure, sembra che queste tensioni fatichino a incontrarsi, rischiando di confinare questo motore alla sfera privata. Questa fragilità non si risolve con un atto volontaristico, né con un piano motivazionale. Riattivare il desiderio, in questo senso, non significa “motivare” le persone, ma costruire contesti che permettano al senso di emergere e di circolare, creando spazi (decisionali e apicali) in cui le energie non si disperdono, ma trovano ascolto, orientamento e possibilità di trasformarsi in visione condivisa.
È una responsabilità organizzativa, non individuale. Ed è forse, oggi, una delle condizioni più urgenti per mantenere vive – e generative – le comunità di lavoro.

Leadership consolidate e resistenze strutturali al cambiamento
Un nodo ricorrente nelle mappe riguarda la posizione della leadership all’interno delle organizzazioni. In molti casi si tratta di figure stabili, con lunga anzianità di servizio e un’identificazione profonda con la missione. Garantiscono memoria, coerenza, continuità: radici solide che tengono insieme il tempo lungo. Ma che restituiscono anche l’immagine di assetti decisionali radicati, poco mobili: leadership storiche, ruoli apicali mantenuti per decenni, strutture che faticano a fare spazio al nuovo. Dove le donne sono presenti, tendono a occupare ruoli intermedi. I Consigli di Amministrazione riflettono questa chiusura: composti in prevalenza da figure senior, spesso esclusivamente maschili e over 55.
Non emergono nelle mappe dispositivi per il passaggio di responsabilità, né segni di una strategia consapevole per il ricambio generazionale. Quando c’è attenzione al tema, è affidata alla sensibilità dei singoli più che a una visione collettiva. Nelle pubbliche amministrazioni – scuola e comune – il quadro cambia forma, ma non sostanza. L’accesso alla leadership è normato rigidamente: l’anzianità è un vincolo, non un criterio tra altri. Nella scuola, in particolare, non solo i giovani entrano con fatica, ma non è previsto che possano assumere ruoli di direzione in tempi brevi. L’attesa diventa struttura, e la leadership “tardiva” una regola implicita, non discussa. Il risultato è che anche nei contesti pubblici il ricambio non solo è lento, ma viene pensato come improbabile.
Non emergono, poi, segnali di consapevolezza esplicita – da parte della governance – rispetto all’impatto della glaciazione demografica sulla sostenibilità organizzativa. Dove esiste una sensibilità, si manifesta più come disposizione individuale che come indirizzo strategico.
Questi dati – sebbene parziali – pongono una questione rilevante: quanto le governance organizzative sono oggi attrezzate per affrontare la glaciazione demografica come sfida strutturale, e non solo come emergenza gestionale? Quando i codici non si riconoscono, e la distanza generazionale si riflette anche nei modi di parlare, progettare, abitare il lavoro, il rischio è che il senso della missione si spezzi: non perché manchi, ma perché non riesce più a circolare

Linguaggi paralleli
Pur nella diversità delle immagini e delle narrazioni, una cosa accomuna le mappe raccolte: le generazioni sono presenti ma non in dialogo. Vengono rappresentate come fasce distinte – per età, ruolo, funzione – ciascuna con la propria posizione, i propri desideri, le proprie fragilità.
Queste traiettorie non sembrano incrociarsi nelle rappresentazioni che ci sono state consegnate. Non emergono dispositivi, pratiche o narrazioni che raccontino un confronto reale tra generazioni, né forme di trasmissione intenzionale. Le differenze ci sono, e in alcuni casi sono nominate con chiarezza, ma non vengono attraversate; più che risorsa paiono confini: si convive, si collabora, ma non sempre ci si riconosce.

Immaginare nuovi processi organizzativi

Le cinque mappe ricevute hanno dato corpo a un paesaggio parziale ma già eloquente. Laddove si sono tracciati contorni, indicati flussi, nominati vuoti, è emersa una verità tanto evidente quanto poco tematizzata: la presenza dei giovani esiste, ma non incide; si vede, ma non trasforma.
Spesso, attraverso la consulenza, abbiamo incontrato organizzazioni con una presenza di giovani numericamente significativa, ben più alta di quella rappresentata nelle mappe ma comunque culturalmente invisibile (per esempio in quelle che si occupano di sociale, educativa e sanitario un quarto/un quinto dell’intera popolazione).
L’esperienza dei giovani resta confinata ai singoli servizi, i legami con l’organizzazione sono fragili, il ricambio è elevato, e nessuno spazio reale di parola o visione viene loro riconosciuto.

Ma più ancora delle risposte, ci interrogano le assenze: quelle organizzazioni che non hanno restituito la propria mappa, forse perché il tema non è (ancora) presente, o perché fatica a diventare oggetto di confronto collettivo. L’assenza, in questo caso, ci dice quanto la glaciazione demografica sia un fenomeno trasversale e marginale nelle riflessioni strategiche.

Ed è qui che si apre uno spazio di divergenza.
Perché il compito è leggere mappe e immaginare nuovi processi organizzativi; di interrogare in modo radicale il nostro modo di abitare le organizzazioni, di guardare alle generazioni non solo dal punto di vista anagrafico, ma come energia culturale, come lente trasformativa.

In questa direzione, a noi e a voi, proponiamo un esercizio:
e se provassimo a immaginare una mappa non del presente, ma del possibile?
Una mappa che non rappresenti ciò che è ma il cambiamento?
Una mappa in cui le generazioni si parlano, si intrecciano, si riconoscono, si mettono in discussione?
Quali ruoli nuovi si potrebbero immaginare? Quali parole far emergere? Quali pratiche, finora marginali, potrebbero diventare centrali?

È un invito divergente, che ha radici nella nostra pratica di consulenza.
La circolarità della nostra consulenza ci ha insegnato che la mappa non è il territorio, ma può generare movimento se accolta come dispositivo vivo, e non come fotografia statica.

Non ci interessa tracciare conclusioni, ma aprire spazi in cui le organizzazioni possano riconoscersi, ridefinirsi, re-immaginarsi, anche partendo da considerazioni demografiche più ampie. È in questa tensione che, anche nella glaciazione, possiamo piantare parole future.

Grazie a chi ci ha affidato la propria mappa. Un gesto di fiducia, che riconosciamo e custodiamo.