a cura dell’équipe di Excursus+
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In principio è la domanda
Nella consulenza la relazione prende avvio da una domanda o più semplicemente da un bisogno portato a noi talvolta senza rielaborazioni, così come viene visceralmente percepito. Ed è proprio da quel bisogno che parte la consulenza: collocandolo in un contesto più ampio, muovendosi dalla persona che l’ha palesato fino all’interno del gruppo di lavoro, dell’organizzazione.
Il passaggio successivo per noi è quello di capire come dare confini, come dare sostanza, come dare un volto al bisogno. Metterci in ascolto vuol dire incontrare non solo la persona che è arrivata a noi, ma incontrare anche le persone con le quali questa lavora, incontrare un contesto, sostare negli spazi in cui quelle persone vivono, che abitano.
L’ascolto è il primo strumento che attiviamo nella consulenza.
Si tratta di un ascolto attivo e profondo; un ascolto che ci permette di cogliere gli elementi contraddittori, la complessità e anche quanto quel bisogno che ci è stato portato sia effettivamente condiviso e autentico.
Nella pratica, perché l’ascolto possa essere generativo, è rivolto distintamente alle singole persone che cui si andrà a lavorare ma è anche un ascolto di gruppo; e questo metterci in ascolto sia delle singole persone sia dei gruppi che interagiscono nell’organizzazione ci permette di capire fin dall’inizio quali sono le dinamiche, quali sono i punti di forza e quali sono anche le criticità dell’organizzazione.
La nostra tensione all’ascolto è connessa al comprendere al meglio il bisogno e la sua genesi, il perché a un certo punto si sia avvertita l’urgenza di esplicitarlo.
Ed è solo dopo il momento di ascolto che maturiamo un ulteriore passaggio: quello di decidere, insieme all’organizzazione, come intervenire, quali strumenti, quale approccio utilizzare, quali obiettivi porci e soprattutto qual è la finalità ultima del nostro lavoro.
In ascolto dei bisogni e dei desideri
L’ascolto non è solo un momento in cui raccogliamo i bisogni, ma è anche quello in cui facciamo emergere i desideri. Pensiamo, infatti, che ascoltare unicamente i bisogni sia limitante. Lo stare sui desideri (che nel tempo ciascuno o ciascuna ha maturato all’interno di quell’organizzazione, espressi o inespressi che siano), può permetterci di definire ancor meglio la traiettoria e il punto a cui tendere.
L’esercizio è quello di partire dal desiderio individuale per poi arrivare a definire qual è il desiderio dell’organizzazione.
In questo processo spesso utilizziamo uno strumento (il WOOP), che riteniamo essere uno strumento efficace per definire e condividere i desideri e per capire come esaudirli nel tempo.
Sostare nella relazione: i tempi della consulenza
Un secondo passaggio è quello di sostare nella relazione, creando una connessione forte.
Sostare nella relazione vuol dire avere rispetto dei tempi dell’organizzazione, riconoscendo la biodiversità presente in essa; come Livia Chandra Candiani parla di biodiversità umana sostenendo il bisogno che l’altro mi porga la sua diversità, senza sbattermela in faccia possibilmente, ho bisogno del conflitto con lui, ho bisogno di capire che cosa succede nell’incontro tra due persone che non si compiacciono, ma che gentilmente esprimono, l’una all’altra, come stanno e in che situazione si trovano. Così parliamo di biodiversità organizzativa come elemento connotante non solo l’organizzazione ma anche la relazione con noi consulenti.
Sostare nella relazione è dunque darsi un tempo e accogliere quelli che sono i tempi stessi dell’organizzazione.
Per noi c’è sempre una giusta maturazione dei tempi e non un’imposizione.
Camminiamo con l’organizzazione, con la consapevolezza che il nostro ruolo è quello di facilitare il percorso delle persone, a volte anche sollevando con il nostro intervento chi è più affaticato, affaticata.
Abbiamo chiaro questo aspetto: condividiamo in avvio della consulenza il calendario, consapevoli che quel tempo definito a priori e imperfetto potrà essere ridefinito più volte. C’è, infatti un tempo non calendarizzabile (il kairos) ed è quello dettato dai ritmi di ciascuna delle persone con cui ci siamo incamminati. È il tempo del paesaggio interiore (e dei passaggi interiori).
Quindi non c ‘è un tempo a priori ma c ‘è un giusto tempo che viene definito insieme.
Sotto questa luce, le interruzioni non sono mai interruzioni permanenti, ma sono delle pause che è opportuno prendersi perché ciò che emerge della consulenza possa essere masticato da tutti, da tutte; possa essere visto, possa essere messo a fuoco e quindi possa poi essere messo a terra.
C’è anche un tempo che va oltre la consulenza: i cambiamenti, che sono ciò a cui tende ogni nostro intervento, a volte avvengono in tempi che sono medio-lunghi e talvolta vanno oltre l’immaginato; pensiamo, per esempio, agli interventi sulla governance oppure a quelli sulla ridefinizione dei processi di lavoro o alla creazione di connessioni generative fra governance e operatività o alla rilettura profonda di quella che è la visione e la missione.
A volte questi processi di cambiamento richiedono un tempo che va oltre quanto previsto dai contratti.
E solo guardando indietro nel tempo ci rendiamo conto di quanto è stato fatto, di quanto quell’organizzazione ha camminato ed è cambiata, di quanto è stata effettivamente capace di mettere a terra ciò che aveva raccolto in un documento, oppure nella creazione/adozione di un nuovo strumento di lavoro; di quanto sia stato efficace il lavoro svolto insieme (noi e loro).
La consulenza è circolare
La nostra consulenza, facendo un ulteriore passo, è una consulenza circolare.
Per noi, infatti, sostare nella relazione di consulenza è occasione di apprendimento. Si tratta di un apprendimento reciproco e interconnesso: imparano i clienti da noi e noi impariamo dai clienti.
Quando si conclude un processo di consulenza ne usciamo avendo appreso un nuovo modo di fare consulenza e di essere organizzazione (ciò che apprendiamo lo riportiamo anche all’interno della nostra stessa organizzazione, di Excursus+).
Attivare percorsi circolari di consulenza vuole dire anche leggere le parti distinte che compongono l’organizzazione come interconnesse.
Dal canto nostro, infatti, laddove non ancora contemplato dalla cultura organizzativa, proponiamo la circolarità strategica di azioni, di servizi, di aree di intervento, mettendo in risalto le connessioni e la maggior sostenibilità.
Spesso le organizzazioni hanno bisogno di liberare delle energie e quindi di leggere gli spazi, l’organigramma con le sue funzioni, i servizi, le progettualità in maniera diversa: circolare per l’appunto; talvolta ci rendiamo conto di come, invece, abbiano una struttura frammentata, funzionino per verticalità e non per circolarità. La frammentazione e le verticalità portano a una dispersione di risorse: culturali, innovative, economiche. Si lavora in parallelo senza incrociare ciò che già c’è ed è stato sviluppato da un altro gruppo di lavoro, seppur interno alla medesima organizzazione; non si condividono le risorse, gli apprendimenti e le strategie.
Frequentando l’interconnessione, la si impara afferma Livia Chandra Candiani; noi potremmo dire che frequentando la circolarità, la impariamo e dunque siamo in grado di vederla, di valorizzarla e di consolidarla.
Quando la consulenza genera un senso
Se la consulenza è ascolto dei bisogni per tendere alla creazione di una relazione,
è far emergere quelli che sono i desideri per trovare il modo di condividerli e portarli a compimento;
se la consulenza ha dei tempi che trascendono la consulenza stessa;
se è circolare,
allora per noi di Excursus+ la consulenza genera un impatto tangibile e culturale.
L’impatto tangibile passa attraverso strumenti condivisi (il piano strategico, l’organigramma dinamico, il modello di business etc.) e gli strumenti che utilizziamo sono quelli che lasciamo all’organizzazione stessa perché, una volta concluso il nostro affiancamento, possa utilizzarli e proseguire nei processi di capacity building.
Altro aspetto è quello del cambiamento culturale: senza questo la nostra consulenza non è stata efficace.
Quando vediamo i cambiamenti (delle persone e dei gruppi che abitano l’organizzazione) e nel tempo ne cogliamo la potenza (ben oltre la nostra presenza in quel contesto organizzativo) allora possiamo iniziare a parlare di impatto (anche misurandolo) e possiamo pensare che come abbiamo lavorato, come abbiamo maneggiato ciò che effettivamente abbiamo visto, letto, accolto, abbia avuto un senso. Un senso per noi come facilitatrici e facilitatori, e un senso per le persone che abbiamo incontrato nel percorso di consulenza.
È con la valutazione dell’impatto che si concludono le nostre consulenze e in questa c ‘è sempre una parte dedicata all’autoriflessività, a come noi consulenti siamo stati all’interno di quel processo, che cosa abbiamo fatto e che cosa non abbiamo fatto e avremmo dovuto fare.
La consulenza è il nostro apprendimento continuo, non a scapito di un’organizzazione ma insieme a essa.
Foto di copertina Fernando Lavin @Unsplash
1 commento su “La circolarità della consulenza, nella nostra narrazione”
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