Da alcuni mesi ci siamo prese uno spazio – questa newsletter – per addentrarci nei movimenti del nostro tempo. Abbiamo guardato alla glaciazione demografica, per comprendere come il declino della natalità stia cambiando la struttura del lavoro e delle relazioni. Abbiamo esplorato le polarizzazioni, osservando come stiano influenzando la possibilità di convivere nelle differenze. Oggi ci proiettiamo nei futuri possibili.
Il futuro non è una linea retta, ma un territorio dinamico attraversato da tensioni, forze e possibilità.
Ogni segnale del presente porta in sé una direzione potenziale: possiamo metterci in ascolto di questi segnali, per riconoscerli e decidere quali orientare verso i futuri che desideriamo. Non si tratta di prevederli, ma di coltivare una postura capace di coglierli mentre accadono. Postura che nasce dall’incontro tra due forze che si sostengono a vicenda: immaginazione e responsabilità.
L’immaginazione apre possibilità; la responsabilità le orienta.
L’immaginazione senza responsabilità diventa fuga; la responsabilità senza immaginazione svuota le opportunità.
L’una dà slancio, l’altra direzione.
Allenare i futuri significa abitare questa tensione e farne una risorsa generativa.
È anche grazie all’incontro con Stefan Chojnicki che questi pensieri hanno preso forma. A lui, esperto di sostenibilità aziendale, ESG e futures thinking, abbiamo chiesto di aiutarci a leggere il cambiamento attraverso nuove lenti e nuovi orizzonti. Le sue parole ci hanno accompagnate nell’esplorazione di strumenti e linguaggi per pensare i futuri in modo diverso: non come scenari da prevedere, ma come possibilità da esplorare.
- Abbracciare l’incertezza
- Tre Orizzonti
- Di tempi lunghi e responsabilità
- Infrastrutture (linguaggio, spazio, immaginazione)
- Futuri fruttiferi
- Riferimenti

Abbracciare l’incertezza
Viviamo in un tempo in cui le organizzazioni sono chiamate a navigare l’incertezza, non a eliminarla. È questa la prospettiva del futures thinking: prepararsi a riconoscere ciò che sta già emergendo, invece di tentare di prevedere ciò che verrà. È una disciplina che diventa pratica quotidiana, un modo di guardare al presente con occhi diversi per leggere le trasformazioni e tenere insieme ciò che scompare e ciò che nasce.
Non offre previsioni, coltiva sensibilità. Allena la capacità di restare nel dubbio senza paralizzarsi e di accogliere la complessità come parte naturale del lavoro quotidiano.
The future cannot be predicted because the future does not exist.
Jim Dator
Il futuro non si analizza: si costruisce, con idee che si mettono alla prova e si rimettono in gioco. È un processo di apprendimento continuo, più vicino al fare che al prevedere. Ed è proprio qui che il futures thinking incontra la cultura organizzativa: ogni decisione che prendiamo oggi, ogni parola che scegliamo, contribuisce ad ampliare o restringere il campo del possibile. In quest’ottica, possiamo guardare al futuro come a una competenza collettiva: un muscolo che si rafforza solo se allenato nel tempo.
Esercitare il futuro significa convivere con la complessità, con il dubbio, con l’idea che più prospettive possano essere vere contemporaneamente.
È un’educazione alla pluralità e, per questo, alla democrazia.

Tre Orizzonti
Per allenare una consapevolezza sul futuro, avere una mappa può essere utile. Una delle più potenti è il modello dei Tre Orizzonti, proposto da Bill Sharpe e ripreso da pratiche di futures thinking. Più che un metodo, è una lente per osservare come i sistemi evolvono nel tempo, offrendo un campo comune che aiuta le persone a discutere del futuro in modo condiviso.
Il modello ci invita a guardare il presente e il futuro come orizzonti che coesistono, non come tappe successive. Ognuno rappresenta un diverso modo di pensare, agire, prendere decisioni:
- Orizzonte 1 (H1): il presente dominante.
Le pratiche, le strutture, i modelli che funzionano oggi ma che iniziano a mostrare i segni della stanchezza. - Orizzonte 2 (H2): l’innovazione dirompente.
Qui si decide se l’innovazione serve a prolungare il vecchio sistema o a costruirne uno nuovo. - Orizzonte 3 (H3): il futuro trasformativo.
È il futuro desiderabile, ancora fragile ma già visibile nei margini.

I tre orizzonti convivono, visivamente, su una mappa. Comprenderli, e chiederci in quale di essi ci muoviamo oggi, aiuta a leggere meglio ciò che accade: dove siamo e dove potremmo – o vorremmo – andare. Non c’è un ordine gerarchico fra loro: ciò che conta è la relazione dinamica che li tiene in dialogo.
Quando un’organizzazione smette di connettere questi orizzonti, inizia a irrigidirsi. Quando invece li mette in relazione, nasce una cultura capace di attraversare le trasformazioni senza esserne travolta.
L’orizzonte intermedio, H2, è lo spazio dell’innovazione e quindi delle scelte di senso. Qui si decide se innovare per mantenere il sistema o per farlo evolvere.
Molte organizzazioni, nel tentativo di rinnovarsi, finiscono per restare nel passato: adottano nuove tecnologie, ma non cambiano le logiche che le governano. È il paradosso dell’innovazione senza trasformazione: si cambia tutto per non cambiare nulla.
Allenare i futuri significa invece lavorare per gettare semi di futuro che non replicano l’esistente, ma lo rimettono in discussione. È un lavoro di ecologia organizzativa, di cura dei processi di apprendimento e di significato. Più che aggiungere novità, serve creare spazi di sperimentazione intenzionale dove le persone possano provare, sbagliare e rimettere in moto i processi.
H2 è anche lo spazio in cui non serve imporre una direzione, ma mantenere vivo il dialogo tra i diversi orizzonti. Tenere insieme la memoria del passato e la promessa del futuro, generando ponti e non fratture. È il lavoro più difficile, perché chiede di abitare la complessità senza cedere alla tentazione delle semplificazioni.
C’è un altro elemento importante in questo esercizio: la consapevolezza del nostro sguardo. Quando osserviamo H1, il presente dominante, non stiamo solo analizzando ciò che accade: stiamo anche interpretando. Ogni lettura del contesto è filtrata dai nostri riferimenti, dai ruoli che ricopriamo, dalle esperienze che abbiamo vissuto. Ci portiamo dentro pregiudizi, convinzioni, omissioni, ma anche intuizioni preziose e competenze maturate. Come possiamo essere certi e certe che il modo in cui leggiamo il presente sia “corretto”? E che cosa accade se i nostri filtri – cognitivi, culturali, emotivi – distorcono o selezionano solo una parte della realtà?
Lo stesso vale per tutti gli orizzonti: ciascuno e ciascuna di noi, e ogni organizzazione, proietta in questo modello il proprio modo di vedere il mondo. Bias, aspettative, desideri e limiti si mescolano alle capacità di osservare e di immaginare. Riconoscere questo processo non è un ostacolo: è un atto di onestà intellettuale che rende il lavoro più autentico.
Pensare per orizzonti significa anche pensare attraverso i propri punti ciechi, accettare che il futuro non si costruisce solo con le risposte, ma anche e soprattutto con la capacità di mettere in discussione le proprie domande.

Di tempi lunghi e responsabilità
Se ogni sguardo sul futuro è parziale, anche il tempo in cui scegliamo di collocare il futuro fa la differenza. Alcune decisioni organizzative vivono nell’immediato, altre agiscono in profondità e sedimentano lentamente.
Stefan Chojnicki ci ha parlato di responsabilità temporale: la capacità di pensare in un tempo lungo, un “long now” che collega le generazioni. Significa ampliare l’orizzonte delle scelte oltre il ciclo di un progetto o di un mandato, per chiedersi: che effetto avrà questa decisione tra cinque, dieci, vent’anni?
Il tempo lungo non è solo cronologia: è un’etica dell’azione, una responsabilità. Ogni gesto locale ha conseguenze sistemiche; ogni scelta individuale influisce sul collettivo. Il futuro diventa così un bene comune: qualcosa di cui prendersi cura, insieme.
Allenare questa prospettiva significa radicare le decisioni in una visione più ampia. In un contesto in cui la velocità è spesso sinonimo di efficacia, prendersi tempo per osservare, discutere e rielaborare può sembrare un lusso. In realtà, è una forma di cura: per le persone, per i processi, per le relazioni che danno senso al lavoro.
Molte organizzazioni si trovano strette fra due pressioni opposte: la necessità di agire in fretta e il bisogno di pensare con lentezza. Tra l’urgenza del presente e la responsabilità del futuro, è nel tempo intermedio che possiamo osservare, formulare domande, reinterpretare.
Il piano strategico, in questa prospettiva, è uno strumento utile per coltivare attenzione, più che per controllare risultati: un esercizio di visione condivisa, capace di tenere insieme quotidianità e orizzonte. Un dispositivo utile per guardare avanti restando nell’oggi, orientando l’agire quotidiano senza perdere di vista la direzione.

Infrastrutture (linguaggio, spazio, immaginazione)
Il modo in cui parliamo del futuro non è neutro: il linguaggio plasma ciò che possiamo immaginare. Le parole hanno un peso, così come lo hanno le immagini e le metafore che scegliamo. Creano scaffali mentali, cornici interpretative che orientano i futuri possibili.
In molte organizzazioni, il linguaggio è il primo luogo in cui il futuro si inceppa. Se continuiamo a usare un lessico di controllo e performance, difficilmente costruiremo spazi di sperimentazione e possibilità. E questo vale non solo nei luoghi di lavoro, ma in ogni contesto in cui viviamo: nella scuola, nella famiglia, nelle comunità che abitiamo. Allenare i futuri significa anche questo: piantare parole future, capaci di aprire spazi invece di chiuderli, di generare immaginazione invece di limitarla.
Lo spazio è il secondo ingrediente. Gli ambienti fisici e simbolici influenzano la possibilità di pensare. Servono luoghi che permettano la sosta, la conversazione, il dubbio. Il futuro non nasce nei corridoi affrettati, ma nelle pause condivise, negli spazi in cui si può respirare e lavorare in modo fertile.
E poi c’è l’immaginazione, intesa quale strumento cognitivo e politico. Immaginare futuri diversi significa riconoscere che il presente non è inevitabile. È un atto di libertà e di responsabilità insieme.
Il futuro appartiene alle comunità che sanno costruire visione insieme ed è una competenza relazionale. Ogni persona, in un’organizzazione, porta con sé un pezzo di futuro: un’esperienza, un desiderio, una paura ma anche la propria visione di futuri diversi, con preconcetti e nebbie. L’allenamento consiste nel mettere in dialogo questi frammenti, trasformandoli in una direzione comune.
In questa prospettiva, il lavoro sul futuro diventa lavoro di cura; cura delle narrazioni, dei legami, dei tempi. Non c’è trasformazione senza relazione e non c’è visione senza ascolto. E quando un gruppo inizia davvero a pensare in termini di futuri cambia anche il tono delle conversazioni: scompaiono le certezze, emergono le domande. Si smette di chiedere “che cosa accadrà?” e si inizia a chiedere “che cosa possiamo rendere possibile?”. È un piccolo spostamento che produce un grande effetto di realtà.

Futuri fruttiferi
Qualche giorno fa sono stata alle Giornate di Bertinoro, un appuntamento che per Excursus+ è diventato negli anni un luogo familiare: uno spazio in cui fermarsi per prepararsi a futuri possibili, allargando lo sguardo e le relazioni.
Quest’anno l’evento ha celebrato il suo venticinquesimo anniversario, con un tema semplice e potente: “Liberi per”.
L’apertura è stata affidata allo spettacolo teatrale Felicità for dummies, di e con Roberto Mercadini. Ci ha ricordato che la parola felice viene da felix, che in latino significa fertile, fecondo; esistono molti modi diversi di essere fecondi, e ciascuno può rendere fruttuosi i propri talenti a modo suo. Ma la felicità, come la fecondità, esiste solo nella relazione: nello scambio, nel confronto, nello spazio che lasciamo a disposizione per noi stessi e per gli altri.
Allenare i futuri significa, in fondo, creare le condizioni per una fecondità collettiva. Nutrire i legami, lasciare che nuove idee attecchiscano, accettare che non tutte daranno frutto, ma che ogni gesto di cura contribuisce a preparare il terreno.
E allora, pensando al futuro, ciò che possiamo augurare alle nostre organizzazioni è di lasciare sempre aperta la possibilità di futuri fruttiferi: futuri che non promettono risultati immediati, ma che coltivano senso e continuità. Perché, come nei terreni fertili, è lì che la trasformazione trova spazio per crescere.
Riferimenti
Grazie a Stefan Chojnicki per la formazione alla nostra équipe, che ci ha permesso di portare avanti queste riflessioni.
Per approfondire i Three Horizons: https://www.impactamplified.co.uk/threehorizons/
Felicità for dummies, di e con Roberto Mercadini: un breve estratto
Le Proteine di questa newsletter
Nota: L’équipe di Excursus è in prevalenza femminile; poiché le riflessioni di questa newsletter nascono e si nutrono soprattutto in équipe, utilizziamo il femminile sovraesteso.
Immagini The New York Public Library @Unsplash
